Al Sacrario dei Martiri di Collelungo
© di Sergio Andreatta
Foto di Rosamaria Pirri e Sergio Andreatta
per www.andreatta.it
Percorrendo, senza mai lasciarla, la malagevole Strada Regionale della Vandra (incontrovertibile prova dello stato abbandonico in cui versa da sempre questa regione citeriore sul versante laziale dell’Appennino abruzzese), una curva mangiata dietro l’altra, da Atina verso i territori di Villa Latina, Picinisco, San Biagio Saracinisco eccoci, infine, nel Comune di Vallerotonda. Oltrepassato il bivio sulla destra per il Lago La Selva*, e prima del piccolo abitato di Cardito, una freccia sul lato sinistro della carreggiata, di poca importanza e senza nessuna enfasi, indica per il Sacrario dei Martiri di Collelungo. Un feed-back che rimanda la memoria collettiva al 28 dicembre 1943 quando le truppe tedesche si resero responsabili di un’orribile strage per aver trucidato 42 persone senz’altra colpa che quella di aver abbandonato il paese e di essersi date alla macchia nel timore di rappresaglie. Tra i 38 sfollati di Cardito avevano trovato riparo anche quattro militari sbandati dopo il caos dell’8 settembre. E sarà stata questa, presumibilmente, la causa della rabbiosa e abnorme reazione tedesca. Tra loro il reale carabiniere Angelo Di Mascio, uno dei 26 “martiri” Di Mascio. Ma sulla Regionale, nel bivio in basso, non ti cattura nessuna sottolineatura, nessuna spiegazione, nessun elemento di attrazione particolare se non uno spontaneo pensiero che ti viene per il solito cippo funerario, il solito triste monumento dedicato a qualcuno degli innumerevoli, militari o civili, caduti nelle alterne vicende della guerra; un episodio, si pensa subito, al più d’interesse storico locale, se non anche poco più che familiare. Ma la mia curiosità intellettuale e il molto ozio nella monotona vacanza di Picinisco, interrotta solo dalle scoppiettanti processioni religiose seppur gratificata dalla visione di tanto splendido verde e da una bell’aria estiva, vincono su quel pensiero e m’inducono ad inoltrami nel territorio montano di Vallerotonda. Così m’inoltro, tra curve e controcurve, per l’ascendente stretta stradicciola delimitata ora da belle siepi spontanee di felci, ora da prati trapuntati da un movimento di bovini e ovini, ora da piante di quercia e faggio. Alcune mucche ci guardano fisse, incuriosite al bordo della strada, le loro lunghe corna sfiorano la macchina e ci intimoriscono un po’ ma poi si girano indifferenti e continuano a brucare tranquillamente.
La bella vista dall’alto del lago artificiale*, con i suoi riflessi cromatici di gobbe verdi e di case sulle acque trasparenti, mi aveva già fatto arrestare l’auto e scattare qualche foto per il mio archivio (www.andreatta.it ). Il paesaggio è bello, molto appagante in sé, e meritevole di maggiori attenzioni turistiche. L’ascesa sembra aver già qui esaurito la sua gratificazione. Ma procedo non senza qualche coraggio su quelle pendenze che si fanno sempre più erte da sembrare insicure anche di giorno. La strada finalmente finisce davanti ad un cancello aperto e con un po’ di ardimento decidiamo di continuare verso il memoriale per uno stretto sentiero di cemento tra le rovelle, ancor più ripidissimo della strada. Si pensa sia breve il tragitto, al contrario non finisce mai. Nessuna indicazione di avvicinamento, dieci volte sono tentato di invertire il senso di marcia e di andarmene (e la seconda volta in pochi giorni che tento di salire, la prima – causa anche il maltempo e l’incombente oscurità della sera – avevo desistito tornando indietro). Ma oggi non voglio dichiararmi vinto e non mollo! Continuo a salire per chilometri fin che sia, fino ad un’altimetria di circa 1500 metri. Si va sempre in forte pendenza, si attraversano verdi prati e alcune piccole e riposanti valli. Il paesaggio è da suggestiva goduria, i boschi sono rigogliosi, a volte si aprono a solari radure per il pascolo. La vegetazione è ormai quello di Prati di Mezzo. Arresto la macchina davanti ad una sbarra di ferro. Sulla sinistra, sopra alcune rocce, è posto un cannone della seconda guerra mondiale diventato ora monumento, simbolo di ammonimento. Sulla destra del viale in salita che, diventato soltanto pedonale, ora sembra imponente, c’è per terra il cartello del luogo. In quattro lingue sono richiamate poche, ma essenziali e significative annotazioni:
“Il 28 dicembre 1943 truppe tedesche trucidarono 38 inermi cittadini di Cardito e quattro militari del dissolto Esercito Italiano. Erano rei di essersi prodigati, con eccezionale senso di abnegazione e carità cristiana, per alleviare le altrui sofferenze comprese quelle dei loro carnefici, e avevano dato soccorso a quanti si trovavano in stato di bisogno nella furia della battaglia che la guerra aveva portato su questi monti. Il loro sacrificio ha radici nel patrimonio culturale comune della nostra gente e rende sacro il luogo che state visitando. Vi chiediamo cortesemente di averne rispetto”.
Nel cinquantenario della strage (1993) è stato eretto il Sacrario (a 1471 m. s.l.m.).
Ci incamminiamo per la carrareccia sterrata dentro la magnifica faggeta ma la meta sembra sempre lontana e pure faticosa perchè non si sa quanto indefinita. Con coraggio decidiamo di proseguire, chi con passo più lesto, chi più lento. Poi due giovani milanesi che corrono in discesa ci incoraggiano: “Altri 400 m. e troverete una fontana di acqua fresca e un altare”. Superata, così, ogni tentazione di desistenza, si prosegue… L’acqua della fontana è leggera, davvero buona, ristoratrice; il posto sorprendentemente molto suggestivo e, perfino, molto curato (unica critica muovibile quel cartello a terra al piede del viale): ordinati muri a secco con terrazzamenti, una gradinata in pietra bianca, due blocchi di calcare e una scultura implodente, camminamenti di pietra bianca, scalinate, due grandi lapidi per la memoria e l’altare con sopra quella tormentata scultura in ferro di Umberto Mastroianni. Il Sacrario… Che silenzio, che religiosità tra le alte colonne dei faggi filtrati dai robusti dardi del sole. Nella lapide, sul blocco di destra, è riportata la lista delle vittime (ben 26 sono i Di Mascio, 6 i Bencivenga – per ironia della sorte! – e altri falciati tra cui alcuni bambini non risparmiati dalla loro tenera età); su quello di sinistra alcuni versi toccanti firmati nel 1992 dal sindaco Giovanni Rongione, omonimo nipote di un trucidato.
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Per qualche minuto viviamo in un’atmosfera surreale, impastata di convulse emozioni e di groppi alla gola, travolti da una tristezza senza fine. Ci sentiamo anche noi feriti, lacerati dal percepito crepitio dei colpi di mitraglia tedeschi tra le piante sfogliate dall’inverno… Un sussulto di rabbia, un tremore dell’anima, un’agonia, poi il profondo silenzio della morte e la consolazione di una preghiera che sale dal cuore, struggente, senza parole. Madre Camilla Andreatta, la missionaria comboniana di Esmeraldas che è con noi, si separa per raccogliersi in silenzio sul muretto davanti all’altare del sacrificio. Aveva 4 anni, lei, quando i tedeschi si accamparono anche nel cortile di casa sua, al Podere 769 di Borgo Bainsizza, a pochi Km. all’interno della costa di Nettuno-Anzio. Quel podere dove lei abitava con i suoi genitori (Giulio Camillo Andreatta e Maria Fanny De Coppi che non erano andati sfollati in Calabria come altri), sarebbe diventato, dopo lo sbarco nella notte del 21-22 gennaio seguente, la sede provvisoria del Comando Alleato. I suoi ricordi sono labili ma, nella loro verità, non del tutto svaniti ancora. Poi ci allontaniamo un po’ da quella cappa di tragedia che incombe su quello spiazzo proseguendo per un bianco vialetto alla ricerca di quel che ancora non sappiamo. Due professionisti di Venafro, gli unici altri visitatori oltre noi, vengono a rievocarci storicamente i fatti, fino a suscitare altra commozione, altra pietà. La donna, professoressa di lettere in un istituto comprensivo di quella cittadina molisana, su questi fatti dice di aver condotto una ricerca. Lodevole. “La memoria storica non va mai dimenticata – aggiunge il dirigente del M.I.U.R. Sergio Andreatta – altrimenti è l’uomo stesso a perdere poi il suo valore”. Una corona di montagne (la catena de Le Mainarde) dai verdi di mille sfumature disegna eleganti profili nell’aria qui limpida e pulita anche in pieno ferragosto. In questo paesaggio mozzafiato, alle pendici del M. Marrone e del M.Cavallo, è difficile pensare ora alla Linea Gustav che passava proprio qui di fronte. Tra gli alti tronchi di faggio le cui cime lambiscono il cielo azzurro, ecco laggiù la silente grigia croce di ferro, il luogo della fucilazione sul Rio Chiaro ove i corpi furono lasciati all’innocente coperta della neve… E già rombano gli aerei degli americani, bombardano paesi, castelli e abbazie famose**. Gettano ponti di libertà sui torrenti, come sul tormentato Mollarino tra Vallegrande e Picinisco. Quando arrivano a “liberare” le popolazioni locali ancora nessuno sembra sapere di quell’eccidio. Una storia, se non dimenticata, quasi ancora oggi sconosciuta. Cinquant’anni dopo (1993) su quel versante viene rinvenuta qualche scarpa e la piastrina militare ossidata del reale carabiniere Di Mascio ed eretta quella croce e il Sacrario per non dimenticare. E se salissero delle classi fin quassù, per quanto agghiacciante, non sarebbe più, questa, una pagina di storia inutile. © – Sergio Andreatta – Riproduzione riservata.
* Lago di Cardito o La Selva, prossimamente su questo sito-web.
** In 15 minuti, tra le 9,20 e le 9,35 del 15 febbraio 1944, l’Abbazia di Montecassino è rasa al suolo dalle aviobombe americane.