26th Ott, 2008

Sergio Andreatta, Vita in palude (I)

  

Le miserabili condizioni di vita di chi, ancora meno di cent’anni fa, viveva in quelle capanne.           

 

wpit88x31 di Sergio Andreatta

 

lestra-della-coscia-parco-nazionale-circeo.jpg“… Con i monti azzurri lontani e le acque addormentate della laguna, qui fra i filari dei campi che si disperdono nell’orizzonte, c’è una pace e un silenzio che non si trovano altrove» avrebbe scritto in seguito un Alberto Moravia abituale frequentatore dei nostri posti e particolarmente di Sabaudia. Ora vedendo qualche melensa e indorata fiction televisiva di Mediaset ambientata in Agro Pontino qualcuno, specie a Latina, potrebbe essere indotto alla singolare nostalgia per la vita libera della lestra (tra l’altro da qualche anno esaltata almeno nel nome, durante i giorni autunnali dell’estate di San Martino, dal falso storico di una “Fiera della Lestra”) o anche, successivamente, per la vita delle animate corti dei poderi dell’O.N.C. Niente di storico, per questa fiera senza tradizioni, ma anche niente di meno attendibile dal punto di vista antropologico-culturale. Non era quella, certamente, una bella epoca per vivere, se uno avesse potuto mai scegliere. «Le Paludi Pontine sono l’angolo più selvaggio e affascinante d’Europa » aveva già scritto Goethe ma l’occhio di un visitatore ha poco dell’esistenziale. Le condizioni umane nelle lestre (anche nella Lestra Zaccheo per citarne una importante perché legata al cognome dell’attuale sindaco di Latina) dell’Agro pontino paludoso di cent’anni fa, (ma per certi versi anche quelle dei coloni nei poderi dell’Agro bonificato su cui abbiamo già scritto in un precedente articolo), erano di un gran bruttissimo livello di vita nel loro modo di essere, di apparire e di esistere. Una quinta di miseria diffusa per l’habitat delle paludi pontine, in ogni cantone se si escludono le isole dell’opulenza abitate dai pochi signorotti. Nelle radure più elevate della selva, lasciate libere dall’acqua, sorgevano i piccoli villaggi provvisori, costituiti da tipiche capanne in paglia e in legno, dette “lestre”, abitati da contadini e pastori, che ogni anno scendevano dalle montagne per trascorrere qui un inverno di duro lavoro. Questo arcipelago di abitazioni, dove i transumanti stagionavano fino a giugno per poi risalire a monte, era costruito alla meglio e contornato da una staccionata per rinchiudere gli animali. La lestra era una capanna anche priva di camino di sfogo sul focolare centrale, un’abitazione rudimentale nella palude che ha resistito fino alla bonifica di Piscinara e che può far pensare, per certi versi della sua forma, ad un tucul africano.

lestra.jpgA lunghe distanze gli uni dagli altri chi avesse viaggiato attraversando l’Agro Pontino avrebbe trovato villaggi di capanne disposte senza ordine intorno ad uno spiazzo sterrato. Nelle capanne rettangolari, quelle più grandi, si radunavano i lavoratori stagionali della terra, gli avventizi da venti a cento persone per recinto. Persone, per lo più provenienti dall’interno, dalla Ciociaria, dall’Abruzzo e dal Molise che venivano nel Pontino a vivere, spinti dalla fame e dalla ricerca di un lavoro qualsiasi, quella miserabile vita nel fango da poche settimane fino a otto mesi l’anno, salute e resistenza psico-fisica permettendo. La lestra, come si può ancora oggi vedere fedelmente ricostruita nel Parco Nazionale del Circeo (in foto la Lestra della Coscia), era un tugurio senza finestre, con due sole porticine poste alle estremità. La linea mediana della capanna era occupata dal focolare costituito da un po’ di terra e da due grosse pietre dove alcune donne macilente, perchè probabilmente malate di febbri terzane, posavano il caldano per fare la polenta, il cibo comune e a più buon mercato per sfamare quella popolazione di derelitti. Non c’era un comignolo per il deflusso del fumo che, perciò, stagnava sotto il tetto cono di canne e foglie. Lungo i fianchi della capanna si alzavano delle impalcature di tavola, anche meno funzionali di quelle che siamo abituati a vedere nei documentari filmati sui lager nazisti, ognuna assegnata ad un gruppo familiare. Erano sollevate da terra di circa 60 cm. nel tentativo spesso vano di proteggersi dalle innondazioni se non dalla risalita dell’umidità. Queste tavole servivano da letto a tutta una famiglia. Sulle tavole erano distesi i pagliericci di foglie di sorgo dove dormivano, o si ricoveravano in caso di malattia non infrequente in quell’ambiente malsano e malarico, fino ad otto persone di tutte le età e di ogni sesso. Nella promiscuità più totale… (1a parte, segue) – © – Sergio Andreatta.

Commenti

Luciano Comelli | take4jazz@libero.it | IP: 87.19.239.95

Gentile sig. Andreatta,
Da qualche tempo osservo con piacere il suo blog e da altrettanto conservavo la voglia di lasciarle un messaggio.

Lo faccio a commento di questo intervento, perchè lo trovo veramente importante.

Sono venetopontino come lei, anche se di “prevalenti” origini friulane (nipote di co-coloni dei veneti, e quindi “venetopontino” nel senso più ampio del termine, secondo l’accezione “pennacchiana” del termine, se vogliamo) e solo in parte venete, e anche se giovane della quarta generazione (contando a partire dal “vecio” combattente).

E anche se di idee politiche di destra, non posso non trovarmi assolutamente d’accordo con quanto leggo, sulla improrogabile necessità di liberarci di un condizionamento che è allo stesso tempo un marchio e un limite importante all’esercizio tanto delle nostre individualità (personali o familiari) tanto della nostra identità “etnica”, oltre che alla generica partecipazione alla vita pubblica…

L’integrale commento di Luciano Comelli, molto molto interessante,si può trovare aprendo uno dei due articoli correlati ed esattamente clickando su coloni nei poderi.

Incrocio per caso il suo sito e mi fa venire voglia di chiudere il mio blog. La inserisco tra i Preferiti e cerco di imparare qualcosa. Le auguro ogni bene.

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