Ho conosciuto Sergio Andreatta a Ponza nel 1970/71, quando insegnavamo nelle scuole elementari di Le Forna. Agli inizi degli anni ‘90 l’ho incontrato a Latina, in Provveditorato, entrambi direttori didattici; quindi siamo legati da interessi professionali comuni, ma anche da una sincera e grande amicizia.
Sergio mi ha dato l’opportunità di leggere la sua ultima pubblicazione, un omaggio con dedica assai gradita. Riguarda la storia della sua famiglia di origine che dalla provincia di Treviso si trasferì a Borgo Bainsizza, presso “Littoria”, nel 1933 appena dopo la bonifica delle paludi pontine. Le fu assegnato il Podere 769 dall’Opera Nazionale Combattenti che gestiva 1953 poderi, concessi prevalentemente a coloni veneti (1440) e friulani (308) (fonte: www.ANA.It-ibonificatorichefecero l’impresa).
Leggendo quelle pagine, ho ripercorso uno degli anni più belli della mia infanzia, quando a sei anni appena, da Ponza raggiunsi mio fratello Tommaso a Borgo Montello: insegnava nelle scuole elementari del posto. Alloggiavamo nel podere di Mariano Sossai, capo di una famiglia patriarcale, veneta di origine, del tutto identica a quella di Ambrogio (el missièr ‘Mbròsio) nonno del nostro amico Sergio. Ricordo Mariano e i suoi figli intenti al lavoro dei campi, il profumo e il gusto incomparabile del latte appena munto, l’avanzare lento e cadenzato dei buoi che, aggiogati all’aratro, lasciavano dietro di loro profondi solchi fumanti; i carri dalle ruote enormi, trainati da candide vacche, assieme alla biada e al fieno trasportavano anche noi ragazzini che, in preda a una euforia immensa, ci agitavamo irrequieti, mentre il burbero Mariano, nel suo bel dialetto veneto, ci ammoniva: “Volete fare i bravi si o si?”. Non ci lasciava alternative. Era il 1947, l’anno in cui a Borgo Bainsizza nacque Sergio. Nello stesso anno la moglie di “el missièr Mariàn” mise al mondo un bambino e poiché a loro piacque molto il mio nome, decisero di chiamarlo Silverio, ma il parroco si rifiutava di battezzarlo: “Suvvia, non esiste un San Silverio!” Però mio fratello Tommaso gli suggerì di consultare l’annuario dei Santi, resosi edotto dello spessore di quell’illustre personaggio, quel sacerdote esclamò: “Ma questo non è un Santo, è un Santone!” Per cui da qualche parte a Latina dev’esserci un Silverio Sossai.
Una famiglia con una fede religiosa profonda e radicata, come gli Andreatta. Quella fede che consentì ai protagonisti del racconto di superare prove difficilissime come gli eventi bellici: dopo lo sbarco delle truppe americane ad Anzio, gli abitanti dei vari borghi si trovarono, loro malgrado, in prima linea, faccia a faccia coi tedeschi prima e con gli alleati dopo, mentre tutto intorno fioccavano bombe e proiettili di ogni tipo. Il podere 769 fu scelto come “sede del Comando Alleato” per un certo periodo durante l’inverno del 1944. A guerra finita i residuati bellici resero molto problematica, per lungo tempo, la coltivazione dei campi e mieterono diverse vittime. Ricordo che a Borgo Montello, nella primavera del 1947, tra i campi si aggirava ancora qualche artificiere, con uno strumento simile ad una lucidatrice, per verificare la presenza di ordigni bellici; di solito si trattava di schegge.
Ma altre gravi difficoltà erano in agguato per questa operosa famiglia: la morte del vecchio Ambrogio, l’incendio parziale della fattoria con cui si dissolse il nucleo familiare originario e nel 1957 la scomparsa di Camillo, padre di Sergio, a causa di un tragico incidente. Ma la Fede aiutò i vari componenti della famiglia ad affrontare con coraggio il futuro.
Il podere 769 oggi non esiste più, i luoghi hanno subito notevoli trasformazioni, la “soave cadenza veneta” non si sente quasi più, mentre si notato tutto intorno disastri ambientali: dal degrado dell’ ex centro di ospitalità per stranieri alla megadiscarica di Via Monfalcone, sono piaghe difficilmente sanabili e, purtroppo sembra che non ci sia fede che tenga per cambiare in meglio le cose.
Una storia che riassume in sé le storie di tutte quelle famiglie venete e friulane che furono chiamate dal “duce” a coltivare la pianura pontina, sorta dalle paludi, dove un tempo i contadini dei Monti Lepini scendevano a prelevare legname, perché vi esercitavano gli usi civici. Mario Berti, sezzese e Assessore alla Regione Lazio tra il 1975 e il 1980, mi raccontava che dopo la bonifica, tra gli abitanti dei Monti Lepini e i nuovi arrivati s’era creata una grande rivalità a causa dei diritti perduti, per cui dopo l’avvento della Repubblica, gli elettori della pianura votavano in massa per la D.C. o il MSI, mentre sui Lepini prevalevano i comunisti. Quindi sotto tale aspetto trovo logico, anche se deplorevole, che qualche “testa calda” in quegli anni, da Sezze o Norma o altro comune limitrofo, si sia spinto giù a rubare qualche gallina, come racconta Sergio, vuoi per fame ma secondo me anche per un atto di rivalsa.
E’ un racconto molto avvincente ed essenziale per approfondire la conoscenza della nostra provincia, la sua origine e la composizione eterogenea dei suoi abitanti, una ricchezza dal punto di vista storico, culturale e umano.
Silverio Lamonica in condivisione con http://www.ponzaracconta.it e http://www.buongiornolatina.it