29th Ott, 2008

Sergio Andreatta, Vita in palude (II)

Le miserabili condizioni di vita di chi, ancora meno di cent’anni fa, viveva in quelle capanne.             

di Sergio Andreatta

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(2a parte, continua).        wpit88x31

lestra-della-coscia-parco-nazionale-circeo1.jpgNella promiscuità più totale “… uomini e donne, giovani dai 19 ai 25 anni, convivono gli uni a fianco degli altri senza distinzione di sesso, regna la massima licenza… e i risultati di quella convivenza erano palesi a chi nelle ore tarde girava in quelle vicinanze e ancor più a chi ne potrà seguire le conseguenze nei vari paesi di origine” una volta tornate con qualche soldo quelle giovani ingravidate ai loro paesi. Forse non si riesce neanche ad immaginare oggi la qualità dell’aria e gli odori che si potevano sprigionare in quegli anfratti, specie quando la pioggia battente da alcuni giorni di seguito impedendo alle persone di uscire all’aria aperta impediva il ricambio interno. E dentro scarseggiava anche la luce solare, tant’è che un medico che fosse sceso a cavallo da uno dei salubri paesi sui Lepini per visitare un ammalato era obbligato a far accendere un lume anche nelle ore più chiare del giorno per poterlo esaminare steso sulla paglia o sulle foglie di granoturco di quelle luride cuccette di fortuna. Se c’era sporcizia tutt’intorno?  Lo lasciamo immaginare al nostro lettore. Il pasto era poverissimo come detto, di pura sopravvivenza. Polenta, un po’ di latte di qualche vacca che pascolava nei dintorni, un ortaggio e la poca frutta selvaggia che si trovava in giro. L’acqua per lavarsi un po’ e per cucinare veniva prelevata dai rari pozzi ma più spesso dai fossi e dai canali, il principale dei quali era ormai da oltre un secolo il grande Linea Pio, dal nome del papa (Pio VI) che a fine settecento lo aveva fatto progettare dai suoi ingegneri idraulici e scavare sul lato destro dell’Appia verso Terracina nel tentativo di irreggimentare il disordine delle acque piovane. Era il tentativo di una prima bonifica dopo gli abbozzi fatti e abbandonati da secoli dai romani e da qualche pontefice suo precursore che aveva, perfino, fatto ricorso all’intelligenza progettuale di un Leonardo da Vinci e da Martino V cui si deve, invece, l’escavo di Rio Martino. Tutt’intorno crescevano macchie grandi e foreste come la notevole Selva di Cisterna che si estendeva fino a Torre Astura. Non c’erano che pochi sentieri battuti e qualche strada, là dove sarebbero state costruite inseguito le parallele Migliare, che andava ad unire i piccoli villaggi fra di loro. Nelle cese, unici spazi disboscati, si trovavano riunioni di capanne. Una volta al mese arrivava il carro rumoroso dell’uomo dei baratti. sergio-andreatta-l-ultimo-dei-lupi.jpgSopra qualche genere di prima necessità, qualche pantalone, qualche camicia e soprattutto arnesi. Il sogno di una compra quasi impossibile per la mancanza di soldi e, allora, si andava al baratto con quel poco che si aveva: una gallina, le uova, un coniglio, le ranocchie… Eppure circa diecimila persone vivevano con questa vita di lavoro tra campagna e bosco abitando in queste capanne, con i più fortunati, talvolta venuti da lontano, come il padre di Maria Goretti da Corinaldo a Le Ferriere, che abitavano in qualche cascina o masseria dei padroni… E i bùtteri si occupavano del governo delle mandrie e della doma dei cavalli alleggerendo la loro fatica nel ricordo serale dell’epico Augusto Imperiali che aveva battuto in un rodeo il leggendario americano Buffalo Bill. Con indosso caratteristici mantelli neri per ripararsi dalle piogge ed in sella ai loro cavalli i butteri guidavano le mandrie di vacche maremmane e i bufali attraverso la palude alla ricerca dei pascoli erbosi. Molti di essi sfiancati morivano uccisi dalla malaria. Nella poesia “Bùtteri” (in: Sergio Andreatta, Eucalyptus, Poesie, Lucania Editrice, 1980, pag. 143) da Le Ferriere scrivevo: “ Vecchi bùtteri / radunano i pensieri / sul muro. / Alla sera / muoiono di fame / anche le ombre / sbandate / senza più il bùttero”. Ogni anno in autunno, prima di risalire, i butteri organizzavano una imponente fiera di bestiame e per attirare i clienti realizzavano spettacoli, rodei e giochi acrobatici (Ed è, forse, qui con uno sforzo d’immaginazione che può essere trovata l’antesignana dell’attuale Fiera della Lestra). Non esistevano, scuole se non nei paesi storici della collina, e per le campagne più popolate andavano raramente quelle mobili attrezzate su un carro e portate ai figli dei guitti da Sibilla Alerano, Giovanni Cena e Alessandro Marcucci e qualche altro buon filantropo prima che venisse costruita la prima scuoletta sull’Appia, a Casal delle Palme pure affrescata da Duilio Cambellotti. Non esisteva in tutta questa vasta landa un minimo servizio sanitario e molte persone, pioniere di un’idea di speranza e di miglioramento personale e familiare, morivano afflitte dalla malaria, mai del tutto debellata malgrado i sistematici proclami di regime neanche dopo la bonifica integrale operata da Mussolini. Non una farmacia, non un semplice armadio farmaceutico nelle masserie del latifondista pre-bonifica. Il quadro tetro ci è così descritto da G. Bonomelli in “Viaggiando in vari paesi”. Su questa massa di diseredati, Bonomelli scrive che dominano i “caporali”, “vera piaga di questi paesi, dove tengono il posto dell’usuraio e del negriero e coi quali i proprietari, nel loro egoismo, non hanno vergogna di contrattare per procurarsi la quantità del bestiame umano necessario al lavoro delle loro tenute”. Eppure tutto questo quadro umano in movimento, tutta questa miseria la trovavamo qui in territorio di Cisterna, di Sezze e Priverno, di Terracina, a poche ore soltanto dalla civiltà della risorgimentale capitale d’Italia, Roma. E così, molta gente tra quella meno apatica, se poteva, scappava tentando di sovvertire la sua sorte più nera con la via dell’emigrazione. La regione pontina già soggetta alla malaria si era andata così via via spopolando tanto che i proprietari terrieri si dicevano seriamente preoccupati dal rischio che “ fra poco non sarà più possibile la coltivazione della terra”. Il Bonomelli non indugia a parlare di sagre, fiere della lestra, feste, momenti di riposo che pure nella bestialità delle condizioni qualche volta dovevano pur esserci. Ma scrive che “una volta alla settimana, la domenica, scendono da Sezze due sacerdoti, uno dice la Messa a Foro Appio, l’altro prima a Tor Tre Ponti, poi alla Botte e finito il loro servizio tornano al paese”. Posti già storicamente presenti negli Atti degli Apostoli (28,15) per la nota citazione di S.Paolo mentre viene tradotto incatenato verso Roma: «Di là i fratelli, che avevano seguito delle nostre peripezie, ci vennero incontro fino al Foro Appio (Forum Appii) e alle Tre Taverne (Tres Tabernae)». A dimostrare che una preghiera, una consolazione, una qualche assistenza spirituale nella stabilizzazione del sistema politico sopravvenuto non si negava a nessuno, era anzi funzionale, anche in questi lontani Pantani d’Inferno© – Sergio Andreatta.

Commenti

Un bell’articolo dal punto di vista della condizione umana esistente in palude ma non dimentichiamo che la bonifica è stata una grandissima impresa.

I miei abitavano dalle parti di Sezze e non stavano, poi, così tanto male, da come mi hanno raccontato. Avevamo la casa su in paese e un campo nella piana. Certo altri, magari… C’era anche chi viveva facendo il mestiere del ranocchiaro. Lo sa?

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