Malgrado l’approvazione della legge n. 1108, già “decreto Gelmini”, sulla chiamata dei sindacati, scontenti del metodo più che della sostanza, lo “scuola day” ha mobilitato oggi milioni di persone per chiedere al governo l’apertura di un tavolo di confronto.
di Sergio Andreatta, psicopedagogista e dirigente scolastico decano del Lazio.
Questa mattina lo sciopero del mondo della scuola ha registrato picchi di adesione numericamente mai visti in precedenti indizioni, (anche nel mio circolo didattico di Latina dove ha aderito il 91% dei docenti e il 69% degli ATA), con il 70% nel Paese (il 57% ammetterà a bocca stretta il governo). “Voglio essere chiaro – aveva detto Massimo Veltroni parlando sabato scorso al Circo Massimo – ogni posizione conservatrice sulla scuola e l’Università è sbagliata. Abbiamo bisogno della scuola dell’autonomia e del merito. Di una scuola che abbia fiducia nella capacità di scelta dei ragazzi. Di una scuola guidata da un progetto educativo moderno e capace di promuovere opportunità sociali e merito, in un contesto di permanente, indipendente, valutazione di qualità”. Quel progetto educativo di sviluppo che se non manca del tutto nel grembo del D.L. n. 137 e della L. n. 133, risulta tuttavia fondamentalmente impastato con l’intrusione della logica dei tagli portata avanti dal ministro Brunetta. Tagli, sicuramente, in parte giustificati. Però così sembrerebbe annientato anche quel disegno, almeno connotato di una sua logica e organicità interna, delle “tre I” portato avanti dal precedente ministro del governo di destra Letizia Moratti. In una scuola primaria, unica ben collocata tra le italiane nelle classifiche OCSE-PISA “il bambino della ragione” come era stato delineato nel suo target commisurato ad un’Italia in trasformazione dal pedagogista Mauro Laeng con i Nuovi Programmi della scuola elementare del 1985 al posto di quelli “tutto sentimento e fantasia” dei programmi del ’55. Poi la Legge n. 148 del 1990 aveva introdotto un consonante impianto organizzativo per moduli (tre insegnanti su due classi) a implementazione del pensiero creativo e critico del bambino. Ora che il decreto è stato approvato e convertito definitivamente in legge ieri (162 sì, 134 no, 3 astensioni al Senato) con la sua nuova architettura del “maestro unico” unicamente ispirato da scelte di bilancio e dinamiche di taglio per il reperimento di risorse da destinare ad altro e che una richiesta di referendum abrogativo si profila all’orizzonte, resta a molti l’amaro in bocca per quel nessun confronto cercato e attivato con tutti i soggetti interessati, giovani studenti, famiglie, docenti. Di questa che non si può definire certo “né una riforma né una controriforma” colpisce particolarmente, quindi, il metodo fortemente direttivo perseguito dal governo Berlusconi. E oggi, ecco aprirsi uno “Scuola day” con 1.200.000 persone che, malgrado le critiche condizioni di maltempo, si sono riversate per le strade di Roma per partecipare alla manifestazione nazionale. La protesta è forte ma non sembra, oltre ogni apparente folklore, del tutto strumentale. Ovunque le televisioni e i giornali, ma anche gli osservatori interni alle istituzioni, hanno raccolto espressioni di preoccupazione se non di umiliazione tra i maestri elementari che si vedono indeboliti un pò nel loro slancio e nella loro voglia di dedicarsi a questa difficile professione. E, allora, tutti dietro uno slogan: guerra alla “riforma Gelmini”, soprattutto contro il ritorno imposto del “maestro unico, più che sugli altri quattro punti di vista pure previsti e non incompresi: voti in decimi al posto dei giudizi, voto in condotta, grembiule, educazione civica… I dubbi della pseudo-riforma Gelmini sembrano, invece, rimanere tutti sul modo e sulla misura della “reintroduzione del maestro unico”. In questi mesi non c’è stata nessuna chiamata per una negoziazione, se non per una condivisione sulla linea, seppure i sindacati , che per il passato hanno goduto di grande ed esuberante potere (strapotere) e privilegio, non possano continuare a coltivare la loro pretesa di essere assolutamente indispensabili. Il governo deve poter governare, meglio nelle forme del dialogo. Ricordo quando, oltre una decina d’anni fa, un ministro a me vicino mi chiese un parere tecnico (oltre che psicopedagogista sono il decano dei dirigenti scolastici del Lazio, se non d’Italia) proprio sulla questione del maestro unico e ricordo bene di avergli risposto per iscritto con motivazioni che ammettevano di pensare utilmente ad un maestro prevalente ma per le sole classi I-II. In questa legge, però, non si ravvisa ancora nessuna idea di riforma, a meno di volersi riferire riduttivamente a questo ripristino del maestro unico nella scuola primaria che comporta a cascata un ripensamento dell’intera organizzazione e della didattica pur senza ancora un’idea sociologica dell’organizzazione e pedagogica della didattica. Dove sono i contenuti, dove la proposta oltre la mera logica dei tagli frettolosamente concepita nell’agosto scorso. E dove va a finire il principio costituzionale dell’autonomia delle istituzioni scolastiche? A farsi benedire… E che senso ha più, ora, continuare a parlare di P.O.F., piano dell’offerta formativa? Non sarebbe più logico e legittimo, e forse neanche del tutto negativo nell’idea di riprendere certi discorsi sfuggiti di mano, valutare in coerenza di reintrodurre di nuovo i programmi di Stato con carattere di prescrittività? Ma questo indirizzo mi sembrerebbe contraddittorio con l’insinuato pensiero della privatizzazione e delle fondazioni. Quindi è la filosofia di sfondo che sta dietro l’azione di governo nel suo insieme, e specialmente dei ministri Tremonti e Brunetta, che pur impostata meritoriamente sull’efficienza della pubblica amministrazione in generale e sui risparmi che se ne vogliono ricavare, a sembrare oggi mortificante per il mondo della scuola e dell’università. Certo non bisogna mai avere la paura del cambiamento specie in una pianeta complesso e che ci cambia intorno di continuo, e non sempre in meglio, a velocità elettronica. Qualche innovazione di portata strategica ciclicamente bisogna pure imporla per questo nostro povero sistema scuola (come la valutazione degli insegnanti e dei dirigenti scolastici, la riforma degli ordinamenti dell’istruzione secondaria superiore, il varo di un vero sistema di istruzione tecnica superiore,…) seppure la scuola primaria sembrasse andar bene. E allora? Non ci si lasci con l’idea pervasiva e pure convincente dei tagli che vanno a mortificare il buono esistente per una direzione che non si sa bene ancora dove porti. E, soprattutto, da questa nuova fase di cambiamenti profondi non facciamo che la scuola possa uscire più povera, gli insegnanti più demotivati, le famiglie più sole ad affrontare la responsabilità di far crescere i loro figli. © – Sergio Andreatta, 30.10.2008