“Durante, olim vocatus Dante” nel VII centenario della morte.
di Sergio Andreatta
Il 13 settembre 1321, dopo il tramonto, per malaria contratta durante il viaggio di ritorno da Venezia dove era stato inviato come ambasciatore di pace da Guido Novello, moriva a Ravenna a soli 56 anni “Durante, olim vocatus Dante” come attesta il figlio Iacopo. Dopo i solenni funerali sarebbe stato sepolto nella chiesa di S. Francesco. Gli epitaffi scritti per l’occasione tra cui quello dell’amico Giovanni di Virgilio con cui il poeta fiorentino era in corrispondenza e a cui aveva scritto l’ultima lettera a Bologna accludendovi la sua ultima egloga, non vennero mai incisi sul marmo perché il prestigioso monumento funebre già annunciato dal suo ultimo protettore Guido Novello non venne mai realizzato. Questi infatti dopo pochi mesi si sarebbe trasferito a Bologna per assumere la carica di capitano del popolo e il fratello arcidiacono Rinaldo, cui aveva affidato provvisoriamente il governo della signoria, in una cruda lotta cittadina per il potere sarebbe stato trucidato dal cugino Ostasio. Come scrive Boccaccio tra le sue carte non si trovarono i tredici canti finali del Paradiso che pure Dante doveva aver compiuto nel 1320 seppure non ancora divulgato. Invano “figliuoli (Pietro, Iacopo, Anna e forse altri) e discepoli” avrebbero cercato a lungo nel suo studio finché “dopo l’ottavo mese” dalla scomparsa avvenne il miracoloso ritrovamento. Comparso in sogno al figlio Iacopo gli avrebbe rivelato che i canti finali si trovavano nascosti in una “finestretta”, coperta da stuoia, scavata nel muro della camera da letto. E “in cotale maniera l’opera, in molti anni compilata, si vide finita”. Come pure ha detto il poeta Andrea Zanzotto di cui ricorre in questi giorni il centenario della nascita “la poesia ha bisogno della sofferenza”. E le sofferte vicende di Dante. “parlatore rado e tardo”, dal 1302 al 1321 “sbandito” dalla città di Firenze e mai più ritornato benché lui soffrisse mortalmente la nostalgia del “bello ovile” hanno fortemente determinato il progetto e la costruzione della sua Commedia. Nella biografia di quegli anni molto tormentati dall’odio tra bande spesso indefinite (bianchi/neri, Cerchi-guelfi/Donati-ghibellini) e alterne proscrizioni, in cui per due volte irragionevolmente sarebbe stato condannato a morte dalla parte avversa, si trova la chiave della migliore interpretazione della “Divina” Commedia. Senza conoscere a fondo e fin nei particolari il romanzo della sua vita sembrerebbe davvero difficile, se non impossibile, coglierne il significato più autentico. Sergio Andreatta, nel VII centenario della morte.