Una scuola da rifare.
di Sergio Andreatta
“L’è tutto da rifare, buon Gino!”. Molti politici, tra quelli al governo ma anche tra quelli all’opposizione, continuano a pensare alla scuola, non come a un servizio per il Paese e per l’utenza, da mantenere e riqualificare condizionandosi al parere degli esperti e al loro approccio scientifico, ma ad un terreno di scontro ideologico, a un puro centro d’interesse piccolo-politico. Eppure la scuola italiana, malgrado tutte le criticità possibili, non si presenta come un pianeta omogeneo, necessariamente appiattito verso il più basso, perso profilo. Il pianeta della scuola italiana è molto variegato e risente di latitudini e longitudini fisiche, antropologiche, politiche e culturali diverse. Risente dell’autonomia. E non c’è nessuna scuola, si può dire, che assomigli veramente ad un’altra. E si scoprono anche scuole di buon livello, se non di assoluta eccellenza, poche forse, ma ci sono. C’è una generalizzata scuola dell’infanzia al quarantennale della sua fondazione (1968 – 2009) e, ancora, una scuola elementare-primaria che continuano la loro mission su buoni e riconosciuti standards, rispondendo bene alla domanda dell’utenza, che poi la gratifica con la sua valutazione percepita, ma anche ai parametri oggettivi dell’indagine dell’INVALSI e delle ultime indagini internazionali PIRLS e TIMSS. Per gli aspetti linguistici e matematico-scientifici i nostri alunni di 9 anni vengono certificati con un buon possesso di competenze e la scuola elementare italiana malgrado tutti i contraccolpi continua a collocarsi, così, tra il 2^ e il 9^ posto in assoluto, continua cioè nei suoi straordinari successi! La classifica OCSE-PISA comincia a diventare impietosa, invece, nel biennio delle superiori collocato intorno al 35^ posto. Un’inesorabile caduta di qualità. E’ qui, come risaputo, che si rinviene la vera defaillance del sistema scolastico italiano che, peraltro, ha già cominciato a dar evidenti e preoccupanti segni di sofferenza in seconda media.
Ma perché mai questa impotenza politica per cui non si riesce a por mano, significativamente neanche il forte Governo Berlusconi, a questa cronicizzata deriva? Perchè non si riesce a smontare le lobby e, con una parvenza di efficienza, si è preferito al contrario stravolgere gli assetti dell’eccellente scuola primaria con l’imputazione falsa e disastrosa dei costi eccessivi? Smontato il buon modulo previsto dalla L. n.148 del ’90 e la sua dignitaria pariteticità nella responsabilità dei processi e sui successi tra i docenti con una pervicacia degna di migliore causa è stato imposto il “maestro unico di riferimento”. I due genitori, se non più “genitori” in una famiglia allargata, i due docenti della scuola dell’infanzia non sono bastati a garantire continuità alla pluralità della linea metodologica e a sottrarre il bambino all’imbuto dell’ insegnante unico di riferimento della neo-disegnata scuola primaria. Un insegnante di livello, e la mia lunga esperienza serve a confermarlo, è senz’altro in grado di ottenere dalla sua classe, specie in I (dove prevalgono gli aspetti tecnici della pre-lettura e lettura, della pre-scrittura e scrittura) e in II elementare dei buoni risultati ma dalla III in poi? L’episteme si fa più complesso. E quanti sono ad un censimento gli insegnanti di sicuro livello? Il modulo calmierava le qualità, facendole distribuire un pò dovunque. Ora, invece, deciderà la sorte: a certi bambini potrà toccare una buona maestra, ad altri… Certo non ci sono moloc e tabù da difendere in assoluto, credo infatti che l’organizzazione di un servizio debba ritenersi sempre migliorabile in qualcosa, ma passando necessariamente per la formazione degli insegnanti che può e deve avere una ben diversa impostazione metodologica e più solidi fondamenti scientifici.
“Migliorare la qualità della formazione degli insegnanti”, sia iniziale che permanente in servizio, è possibile, come ha sostenuto la stessa Commissione Europea in una sua comunicazione (2007), sviluppando in una visione di internazionalizzazione da un lato il versante pedagogico e disciplinare specifico, promuovendo dall’altro una cultura della ricerca e della riflessione professionale fino a superare i malintesi paradossi di un’autonomia dell’insegnamento che non può mai essere intesa, al contrario, in modo assoluto.
Prima del 1999 con le SSIS, Scuole di specializzazione per l’insegnamento nelle scuole secondarie riservate a quei pochi fortunati, più che bravi, che vi hanno avuto accesso, i docenti, specie quelli delle secondarie, si formavano soltanto sui contenuti delle discipline, senza occuparsi del metodo, tra l’altro in una Università già scaduta per demagogico lassismo. Al contrario da decenni uno dei più grandi esperti, J.Bruner, va sostenendo che “tutto (il successo) dipende dal metodo“. Pedagogia, metodologia, didattica sono state discipline e pratiche malviste e da scantonare, neglette cenerentole senza dignità di figlie accademiche. Di tirocinio obbligatorio in classe (mentoring e coaching) neanche a parlarne! Sviluppo della personalità e apprendimento intelligente difficilmente ritenuti tra i compiti primari del docente ma, semmai, più un addebito personale, una richiesta e un’aspettativa da soggetti appartenenti ad una generazione spesso immatura e superficiale, tranne quelle “rarae avis”, quale mi vanto di essere stato ai miei tempi (anni 65-’70), che si possono rintracciare sempre, in ogni stagione scolastica.
La sola trasmissione. Il modello didattico era ed è centrato sulla trasmissione delle nozioni, spesso neanche quelle più significative, più che sulla condivisione dei saperi e dei valori o sulla ricerca-azione di nuovi. Chi e quanti docenti si sono preoccupati in passato o al presente della qualità dell’apprendimento e della rispondenza dei loro risultati? Le interferenze sindacali, l’ingaggio senza buone selezioni professionali, la mancanza assoluta e sistematica di una valutazione delle pratiche d’insegnamento, lo spodestamento della funzione del dirigente scolastico esautorato e quasi estraniato dai processi didattici e dal loro monitoraggio, gli stessi ultimi dirigenti promossi tali con concorsi speciali per un’estensione di precedenti normalizzazioni già applicate ad una truppa di docenti ex-precari: tutto questo è alla base del tremendo sfascio attuale della secondaria italiana di per sé capace di rendere evanescenti e di dilapidare perfino il retaggio di tutti i buoni insegnamenti avuti in precedenza dallo studente. Come rimediare ora? Con la formazione severa e continua sui saperi e sulle competenze didattico-pedagogiche e disciplinari dei docenti, con il bando di concorsi molto selettivi, con una indifferibile e urgente valutazione dei percorsi d’insegnamento-apprendimento, cioè dei risultati.
C’è l’assoluta e improcrastinabile necessità di una previsione di carriera per i docenti basata sulla valutazione del merito, di uno sviluppo professionale sul piano culturale, etico e politico che poi, come obiettivo concreto, è anche il primo dei tredici che i ministri dell’istruzione dell’UE si sono ambiziosamente dati a Lisbona a fine 2007. Quindi per un’economia reale che nei Paesi si vuole “basata sulla conoscenza” non si può non tenerne strategicamente conto, specialmente in correlazione con questa fase di accentuata recessione. Una delle vie d’uscita a medio termine dalla crisi è senz’altro rappresentata da un investimento di risorse sulla conoscenza. Anche un punto di riferimento per le politiche nazionali e per quelle della cooperazione comunitaria in prospettiva di ripresa.
Bisogna ampliare il numero dei buoni docenti e premiarli per i loro impegni e i loro risultati, non insultarli con stipendi da fame che fotografano per loro uno status sociale deprimente. Ma i risultati si ottengono in contemporanea con una maggiore autorevolezza e severità con i discenti. In questo senso il voto in condotta, con l’importanza che gli è stata assegnata, è un buon segnale.
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Se il riconoscimento economico per chi cura la crescita psico-emotiva, culturale e intellettuale di una classe di 25/28 adolescenti nella fase più delicata della loro vita continuerà ad essere quello di un impiegato, dopo un ben diverso investimento formativo, non dobbiamo aspettarci per il futuro risultati diversi e migliori di quelli finora registrati. Qui è tutto da rifare, una vera rivoluzione subito! Ma se B. Obama negli States nella crisi peggiore del suo Paese dal 1929 in poi ha già deciso di investire fortemente nella scuola per contrastare il declino di un intero sistema sociale, che cosa dovrà fare il governo per contrastare efficacemente il disastro italiano? Ha deciso per ora di tagliare le risorse umane professionali, di scombussolare gli efficienti moduli della primaria ma anche, peraltro, di cominciare ad immaginare, soltanto nelle ultime ore, una opportuna valutazione delle prestazioni per i pubblici impiegati e, quindi, si deve ritenere anche dei docenti. Avrà il governo il coraggio di mantenere il suo intento e di non retrocedere dagli obiettivi prefigurati?
Se sul lato B del disco ho inciso la situazione della scuola italiana vista dall’interno, sul lato A dovrei interessarmi della famiglia, dei suoi primari doveri educativi, di quei “genitori sbagliati”, secondo Andrè Berge, che hanno rinunciato troppo in fretta a svolgere la loro funzione. Lassisti, iperprotettivi, non-genitori ma al massimo fratelli maggiori e di gioco dei loro figli. L’insuccesso, non soltanto scolastico dei figli, si specchia e si specchierà sempre simmetricamente su di loro.
© Sergio Andreatta, psicopedagogista, dirigente scolastico, autore del saggio “Bambini una volta”.