C’era una volta l’emigrazione degli Italiani in America.
di Sergio Andreatta
L’integrazione degli stranieri è tanto più difficile quanto più debole è l’identità culturale della nazione che li ospita. E l’identità della nazione italiana non è solo debole, ma rischia di indebolirsi ancora di più se la scuola non svolge il suo compito, che nei confronti degli alunni stranieri è quello di “farli partecipi della nostra lingua, della nostra storia, della nostra cultura: principalmente nella scuola, che di tutto ciò deve, o meglio dovrebbe essere, simbolo operante”.
Questa è la tesi, neanche tanto rara, di Ernesto Galli della Loggia espressa in un editoriale della settimana scorsa su Il Corriere della Sera (“L’integrazione non si fa così” con riferimento alle “mitologie internazional-mondialiste” di una scuola romana, la “Carlo Pisacane” rea di voler cambiare la propria denominazione con quella del pedagogista giapponese Tsunesaburo Makiguchi). Un sintomo, ha sostenuto Galli, del progressivo cedimento culturale del nostro Paese “… a scapito del consolidamento dell’identità nazionale”. Tema interessante e non nuovo. Già Oriana Fallaci, per qualche verso, lo aveva esposto in un suo manifesto contro l’avanzante e “rischiosa” islamizzazione dell’Italia e dell’Europa.
Frontiere aperte, frontiere chiuse: pregi e difetti di una società italiana in movimento, aperta e multiculturale tra flussi e riflussi di pensiero e un concetto di accoglienza sostenibile che viene, però, oggi più di ieri in nome di una diversità (“l’altro è il mio inferno” aveva già scritto per altri versi J.P. Sârtre ne “L’ être et le neant”) giornalmente messo in discussione.
Non si vuole offrire qui una rassegna dei vari corni della problematica e complessa questione per come si viene ultimamente manifestando in Italia, piuttosto una pagina di storia sugli emigranti d’Italia in USA a fine ottocento e ai primi del ‘900*.
1900, da Paderno a N.Y. – Cinque Andreatta in cerca di avventura.
Al fascino e alla necessità dell’emigrazione in America partecipò anche mio nonno paterno, Ambrogio Andreatta, allora ventiquattrenne, che emigrando dal Veneto, esattamente dalla pedemontana del Grappa, era transitato per Ellis Island dopo essere sbarcato a N.Y. il 5 novembre del 1900 dal transatlantico francese “La Touraine” (Manifest Line Number 0021) partendo da Le Havre (American Family Immigration History Center at Ellis Island / Passenger Record). La Touraine era una grande nave con motori a carbone di 12.000 cavalli di potenza, capace di percorrere 900 Km. al giorno e di coprire la rotta Le Havre – New York in meno di 7 giorni. Era in grado di imbarcare fino a 1250 passeggeri e aveva a bordo 320 tra ufficiali, sottufficiali, marinai, cuochi e inservienti. Ma in quel viaggio (0021) approdato a N.Y. il 5 novembre del 1900 trasportava soltanto 521 passeggeri di varie nazionalità, escluso il personale di bordo. Tra questi 521 c’erano 6 uomini di Paderno, tra cui mio nonno ventiquattrenne e un ragazzo sedicenne di Crespano (Zardo Antonio). Tra i 6 di Paderno d’Asolo, poi dal 1919 Paderno del Grappa, c’erano 5 Andreatta, tra loro parenti: Ambrogio Andreatta di 24 anni (mio nonno), Armelao Andreatta di 37, Giovanni Andreatta di 31, Luigi Andreatta di 32 e Silvio Andreatta di 23. Al gruppo si era aggiunto un amico compaesano, Serena Luigi di 35 anni. Nella stessa pagina del Rapporto si riscontrano altri 3 Andreatta, non familiari, tutti partenti da Segonzano (TN): Fortuna di 22 anni, Luigi di 11 e Zerta di 2 anni e 9 mesi sicuramente richiamati negli States dal loro capofamiglia. Dieci anni dopo, però, Ambrogio Andreatta aveva già fatto rientro al suo paese d’origine (Paderno, TV) con una fortuna sufficiente a poter impalmare la sua giovane sposa (una figlia di Costante Filippin già impiegato nei lavori di restauro del campanile della Chiesa, Luigia nata nel 1889 a Montevideo dove il padre era emigrato e poi rimpatriato), metter su casa e dar i natali (1911) al suo primogenito Vittore Andreatta che andava a rinnovare nel nome del nonno la catena dinastica (Cent’anni dopo il pronipote Flavio Andreatta di Vittorio > Aurelio > Ambrogio, dopo aver studiato all’Università di San Diego, ne sta ricalcando le orme)… Scrivono i Proverbi (17, 6) che: “I figli dei figli sono la corona dei vecchi, e i padri sono la gloria dei figli”. Questo, uno dei più antichi pensieri sulla sociologia della famiglia che si rintracci, è stato valido per millenni fino a poco tempo fa prima di subire lo smantellamento in nome dell’autonomia personale e del diritto a farsi ognuno la propria strada. Ma il relativo benessere di Ambrogio (el missiér dei “Formìn“) si sarebbe dissolto soltanto dopo pochi anni perchè il suo paese e la sua casa sarebbero stati coinvolti nel più importante e distruttivo teatro bellico (“Montegrappa, tu sei la mia patria,… sovra a te il nostro sole risplende,… o montagna per noi tu sei sacra…”****) della I guerra mondiale (1915-’18 e in cui Ambrogio dal ’17, per la sua conoscenza della topografia e della lingua, sarebbe stato cooptato per fornire contributi all’intelligence delle forze americane entrate in guerra da alleate al nostro fianco). Poi, tardando la ricostruzione civile e stentando ancora molto la ripresa economica in quella regione, nel 1933 si sarebbe prospettata la necessità di una nuova emigrazione, questa volta verso l’Agro Pontino…