“Noi, Veneti-Pontini”
Ovvero, della fine della retorica di regime.
Noi Veneti-Pontini per troppo tempo ci siamo fatti imprigionare, immobilizzare per due generazioni a Latina dalla retorica del fango, dei procoi, della lestra, della palude malefica, della bonifica integrale e, poi, anche dei coloni pionieri e salvatori…
Siamo stati… imprigionati, incapsulati per due generazioni, o meglio ci siamo fatti volontariamente immobilizzare dalla retorica del fango, dei procoi, della lestra, della palude malefica, della bonifica integrale di Littoria, dei coloni pionieri di cui io, discendente di… primi veneti, dovrei pure vantarmi, specie dopo il monumento (dell’arch.Giuliana Bocconcello) inaugurato nel piazzale delle Poste. Insomma ci hanno assegnato una parte nella commedia umana pontina e questa parte, sempre ripetitivamente la stessa, ci è pure piaciuta.Chissà perchè!
Quante parole usate e abusate dalla rinascente e mai sopita retorica e quanta dimenticanza, invece, dei sacrifici, delle fatiche di una lunga giornata di 15 ore di lavoro sui campi senza diritti sindacali, degli stenti, delle malattie, delle morti, delle notevoli miserie esistenziali, delle molte mortificazioni dovute subire ad opera degli esponenti più prossimi del regime imperante, dal podestà ai funzionari di partito, ai più viciniori i fattori dell’ONC. E si è fatto leva sull’enfasi mussoliniana del “fatto” per strumentalizzarci politicamente…Perchè non c’era nel cortile dei poderi quel clima nè ideale nè romantico di certi sceneggiati televisivi che si vorrebbe far credere perchè la vita da colono non era, affatto, una bella vita. Forse non c’era miseria ma c’erano gli stenti di chi sgobbava dalla mattina alla sera per poco o per nulla (basta pensare alla campagna del grano sulle tere magre e inadatte di Borgo Bainsizza), se non ci fosse stata quell’idea ultima del riscatto delle terre! Poveri coloni, povero regime! E beati i poveri di queste famiglie patriarcali, allora?… Non riusciremmo oggi a capire con riflessione matura e a condividere il senso di questa beatitudine evangelica se non attraversando e comprendendo i comportamenti d’inerzialità, di relativismo e di frammentazione cui furono sottoposti, allora, i nostri padri coloni veneti. E non si può, neanche, dire “Beati i sottomessi che permettono agli altri di disporre di loro e di fare quello che vogliono”. Non è accettabile, per un’idea dignitosa di condizione umana, che lo si dica. E, quindi, altro che protagonisti! Attivi in casa d’altri come lavoratori senza terra propria e in cerca di essa, passivi (e occulatamente passivizzati) come soggetti politici e sociali. E invece ancora oggi: “Omnes laudatores temporis acti“, eccoli a glorificare, specie a partire dagli ultimi due… irrefrenabili sindaci (Ajmone Finestra e Vincenzo Zaccheo), quei vent’anni del tempo che fu e che si vorrebbe epicamente “fermare”. Quello quasi fosse l’unico tempo vivibile, “il bello”, senza ricordarsi di null’altro se non dei fasti del regime, delle parate, dei sabati fascisti, dei pur godibili bianchi travertini delle architetture razionaliste, dei parchi da intitolare a Mussolini… Forse è che anche noi come i sioux abbiamo bisogno dell’esaltazione di una mitologia nativa per non disgregarci. Quel tempo, senza rimpianti, è definitivamente tramontato! Ancora affascinati dall’idea che rinverdiscono, i nostri due sindaci e altri come loro non evocano, così, al meglio l’immagine di chi combatteva in carne e ossa la sua “battaglia del grano” e contro la mortifera zanzara e si sacrificava, quasi immolandosi, in campi spesso avari e ingrati. La vita quotidiana, durissima, era tutta un’altra scena rispetto alle retoriche e alle infiammanti adunanze sulla piazza davanti al municipio quando, pure, dovevi dire “sì” o osannare “Viva il Duce” a comando senza alternative. O come era stata tutta un’altra condizione, rispetto alle febbrili campagne dell’Agro Pontino, la vita civile (per molti, se non per tutti), nei loro paesi di provenienza. Lo scenario dei miei era il teatro di guerra della pedemontana del Grappa dovuto abbandonare perché martoriato dai bombardamenti della grande guerra, con alcuni paesi quasi rasi al suolo…E, poi, … quel risarcimento fatto baluginare per la casa distrutta, perché non era possibile in quel momento allo Stato risarcire altrimenti, di un podere “offerto”, seppur così lontano dalle consonanze della propria vita, sul piatto della retorica redenzionista del littorio che lo condiva di tante altre non mantenibili promesse.E su quella speranza si mossero in treno in migliaia: erano le famiglie, quasi “deportate”, che volevano sradicarsi dalla povertà, forse, ma che non immaginavano di doversi svellere definitivamente anche dal DNA del loro contesto antropologico e culturale, a volte patrimoniale, notevole. E chissà se i miei nonni materni, dipendenti del Comune di Mareno di Piave negli anni ’30, persone mediamente colte, con lui che parlava bene il tedesco e lei che aveva lavorato a Genova, avrebbero accettato lo stesso di fare questo esodo senza ritorno, propagandato alla grande dal governo in quei mesi, se gli avessero dato la possibilità di stipendi più congrui a mantenere lì la loro famiglia. Avevano sei figli, dai 10 ai 19 anni, da mantenere e i loro esistenziali bisogni da soddisfare. E, allora alla fine, si dovettero convincere alla mobilità verso il sud, poco fuori Roma dicevano, e s’inventarono all’istante… “coloni“, loro che non avevano mai coltivato terra prima e si trovarono d’un botto ad occuparsi di un vasto podere argilloso su una duna quaternaria, sperduto dalle parti di Strada del Piano Rosso a Borgo Montello. E, chissà anche, se si sarebbero mossi i miei nonni paterni con ascendenze trentine e residenti ormai da generazioni nell’epicentro del teatro di guerra, ai piedi del Monte Grappa, che avevano esperienze di viaggi e di lavoro in America. Ma i nostri Veneti s’industriarono, comunque, laboriosamente su quello che era il “podere… regalato“, come si sente ancora (sic!) indegnamente dire, adesso, da qualcuno…E che impresa estenuante, al contrario! Il dispendio energetico e psicofisico era quasi sovrumano ma quel bene era raggiungibile definitivamente solo col più faticoso dei riscatti! Ed era il pater familias, il patriarca a decidere, dopo un piccolo consulto con i suoi, come pagarlo quel podere dell’O.N.C.: o in grano o in soldi, senza alternative. E mio nonno paterno, visto che i campi sullo Scopeto davano appena 18 quintali di grano per ettaro e si sarebbero così raddoppiati i vent’anni del riscatto, con il pragmatismo del saggio che era stato negli States a lavorare, decise che avrebbero pagato in… “schei”! Ma solo perchè lui, a differenza di tanti, se lo poteva permettere! E il riscatto, per una politica che non andava certo incontro e a favore dei coloni, fu anche differito per eviatare lo strozzo della povera gente al …1966! 33 anni dopo l’approdo in terra pontina il tormentato riscatto era compiuto, altro che regali del regime! Ma l’incertezza era stata grande, e non si sapeva mai, tanto che mio nonno aveva deciso di tenersi anche la casa in Altitalia finchè le cose non fossero diventate del tutto chiare. La casa Andreatta di Paderno fu tenuta fino agli anni ’60 finché non apparve loro che le sorti delle famiglie, che si erano formate nel frattempo, si erano ben stabilizzate nel Pontino, in quest’America in Piscinara. I vecchi, i pochi superstiti di settant’anni fa, sono naturalmente radicati alla loro avventura, e bisogna capirli. Quei “tempi della nostalgia” li rimandano indietro, li rimandano alla loro gioventù, alla bellezza dei loro primi furenti amori, al sentimento dei familiari scomparsi. Ai “veci“, come a tutti gli anziani, piace narrarsi…Ed è anche bello, perchè no?, sentirli raccontare su Latina quando si chiamava Littoria. Per loro è come ricordare l’alba del giorno, il momento in cui al sorgere del sole si rompe la tenebre e sale dentro un’emozionante speranza per quello che potrà accadere di meglio, tra poco. Eppure a me viene da dire, e forse mi sbaglierò, che noi “veneti-pontini” siamo stati “storicamente” imprigionati, come il cane nella palude di una fotografia da me scattata oggi a Fogliano, senza tante possibilità di liberarci, senza tante possibilità di crescere nello sviluppo civile. I veneti per molto, troppo tempo decentrati nei poderi, hanno tenuto le loro radici ben abbarbicate nella terra dell’agro pontino senza pensare che quelle radici potevano anche diventare… dei mobili piedi da mettere nella società, nelle sue professioni, nelle sue partecipazioni politiche. I ventimila veneti troppo a lungo, salvo qualche eccezione, sono rimasti fuori dal cuore della “polis pontina” e dalle sue questioni più pregnanti, fino ad apparirmi dei… ritardati sociali (absit injuria verbis). Lavoravano sodo, indubbiamente, per il riscatto della loro “Terra”, ma i loro ragazzi, spesi nella fatica, non studiavano, tranne pochi …Anche perchè mantenere i “fiòi” allo studio, negli anni ’50, costava “schèi ca no i ghe ièra!”.Quell’emigrazione interna, quasi forzata, che li ha condannati al camp, alla terra per trent’anni, assegnati ai separati poderi, ha indotto una regressione sociale, quasi generalizzata, avallando nel pontino, e specie nel lepino, l’idea di un colono veneto dalle braccia muscolose ma di chissà quale cervello. Il forzato isolamento nel reticolo degli sparsi poderi doveva, in effetti, procurare diffidenza nella comunità e arretratezza culturale. Ho conosciuto ragazzi schivi, poco propensi ad uscire dai loro cortili ma anche, per fortuna, altri aperti, espansivi, di allegra compagnia e, soprattutto, viva intelligenza. Il colono veneto come lo si violeva era, così, ben rappresentato, dall’icona de “il seminatore” littorio che ora giace nel portico del Palazzo dell’Agricoltura, bello, statuario, inerziale strumento nei programmi politici di altri, quasi macchina muscolare disponibile a poco prezzo…
Ma ora che anche il seminatore è arrivato, in questi giorni, a guardarsi allo specchio (foto) per cercare di capire, facciamoci anche noi un’autoanalisi. Ora con “il lento trascorre del tempo” come ha scritto Donald W.Winnicott, con l’integrazione tra etnie di vario genere, anche questi veneti si sono integrati, camminano accanto agli altri, hanno preso a prendersi cura dei problemi della città, hanno appreso a studiare, a farsi valere nelle professioni, ad emergere o stanno apprendendo le virtù del procedere verso un’altra società pontina.Abbandonata in gran parte la vita dei poderi, accettando di spersonalizzarsi dai miti e dalle primogeniture, è diventato per loro via via più facile rinascere.Quelle pseudo-primogeniture, comunque, non appartenevano a loro giacché in fondo, ma anche in principio, in queste terre si erano avvicendati diacronicamente anche altri pionieri.Noi veneti-pontini, così “modestizzati” ma più liberi, abbiamo il bisogno di abitare, oggi, la città in modo diverso, di camminare per strade “anche politiche” ben diverse, di lasciare l’immobilismo delle mitologie e dei “pantani che furono” per andare alla ricerca e alla sperimentazione di nuovi progetti di più dignitosa partecipazione e di più civile grandezza. Sergio Andreatta © (aggiornamento di www.telefree.it dello stesso autore).