25th Nov, 2007

Noi, veneti-pontini

“Noi, Veneti-Pontini”

 Ovvero, della fine della retorica di regime.   

 

 Noi Veneti-Pontini per troppo tempo ci siamo fatti imprigionare, immobilizzare per due generazioni a Latina dalla retorica del fango, dei procoi, della lestra, della palude malefica, della bonifica integrale e, poi, anche dei coloni pionieri e salvatori…

monumento-alla-gente-veneta-di-latina.bmp

 

Siamo stati… imprigionati, incapsulati per due generazioni, o meglio ci siamo fatti volontariamente immobilizzare dalla retorica del fango, dei procoi, della lestra, della palude malefica, della bonifica integrale di Littoria, dei coloni pionieri di cui io, discendente di… primi veneti, dovrei pure vantarmi, specie dopo il monumento (dell’arch.Giuliana Bocconcello) inaugurato nel piazzale delle Poste. Insomma ci hanno assegnato una parte nella commedia umana pontina e questa parte, sempre ripetitivamente la stessa, ci è pure piaciuta.Chissà perchè!

latina-monumento-ai-pionieri-veneti-fto-sergio-andreatta.JPGQuante parole usate e abusate dalla rinascente e mai sopita retorica e quanta dimenticanza, invece, dei sacrifici, delle fatiche di una lunga giornata di 15 ore di lavoro sui campi senza diritti sindacali, degli stenti, delle malattie, delle morti, delle notevoli miserie esistenziali, delle molte mortificazioni dovute subire ad opera degli esponenti più prossimi del regime imperante, dal podestà ai funzionari di partito, ai più viciniori i fattori dell’ONC. E si è fatto leva sull’enfasi mussoliniana del “fatto” per strumentalizzarci politicamente…Perchè non c’era nel cortile dei poderi quel clima nè ideale nè romantico di certi sceneggiati televisivi che si vorrebbe far credere perchè la vita da colono non era, affatto, una bella vita. Forse non c’era miseria ma c’erano gli stenti di chi sgobbava dalla mattina alla sera per poco o per nulla (basta pensare alla campagna del grano sulle tere magre e inadatte di Borgo Bainsizza), se non ci fosse stata quell’idea ultima del riscatto delle terre! Poveri coloni, povero regime! E beati i poveri di queste famiglie patriarcali, allora?… Non riusciremmo oggi a capire con riflessione matura e a condividere il senso di questa beatitudine evangelica se non attraversando e comprendendo i comportamenti d’inerzialità, di relativismo e di frammentazione cui furono sottoposti, allora, i nostri padri coloni veneti. E non si può, neanche, dire “Beati i sottomessi che permettono agli altri di disporre di loro e di fare quello che vogliono”. Non è accettabile, per un’idea dignitosa di condizione umana, che lo si dica. E, quindi, altro che protagonisti! Attivi in casa d’altri come lavoratori senza terra propria e in cerca di essa, passivi (e occulatamente passivizzati) come soggetti politici e sociali. E invece ancora oggi: “Omnes laudatores temporis acti“, eccoli a glorificare, specie a partire dagli ultimi due… irrefrenabili sindaci (Ajmone Finestra e Vincenzo Zaccheo), quei vent’anni del tempo che fu e che si vorrebbe epicamente “fermare”. Quello quasi fosse l’unico tempo vivibile, “il bello”, senza ricordarsi di null’altro se non dei fasti del regime, delle parate, dei sabati fascisti, dei pur godibili bianchi travertini delle architetture razionaliste, dei parchi da intitolare a Mussolini… Forse è che anche noi come i sioux abbiamo bisogno dell’esaltazione di una mitologia nativa per non disgregarci. Quel tempo, senza rimpianti, è definitivamente tramontato! Ancora affascinati dall’idea che rinverdiscono, i nostri due sindaci e altri come loro non evocano, così, al meglio l’immagine di chi combatteva in carne e ossa la sua “battaglia del grano” e contro la mortifera zanzara e si sacrificava, quasi immolandosi, in campi spesso avari e ingrati. La vita quotidiana, durissima, era tutta un’altra scena rispetto alle retoriche e alle infiammanti adunanze sulla piazza davanti al municipio quando, pure, dovevi dire “sì” o osannare “Viva il Duce” a comando senza alternative. O come era stata tutta un’altra condizione, rispetto alle febbrili campagne dell’Agro Pontino, la vita civile (per molti, se non per tutti), nei loro paesi di provenienza. Lo scenario dei miei era il teatro di guerra della pedemontana del Grappa dovuto abbandonare perché martoriato dai bombardamenti della grande guerra, con alcuni paesi quasi rasi al suolo…E, poi, … quel risarcimento fatto baluginare per la casa distrutta, perché non era possibile in quel momento allo Stato risarcire altrimenti, di un podere “offerto”, seppur così lontano dalle consonanze della propria vita, sul piatto della retorica redenzionista del littorio che lo condiva di tante altre non mantenibili promesse.E su quella speranza si mossero in treno in migliaia: erano le famiglie, quasi “deportate”, che volevano sradicarsi dalla povertà, forse, ma che non immaginavano di doversi svellere definitivamente anche dal DNA del loro contesto antropologico e culturale, a volte patrimoniale, notevole. E chissà se i miei nonni materni, dipendenti del Comune di Mareno di Piave negli anni ’30, persone mediamente colte, con lui che parlava bene il tedesco e lei che aveva lavorato a Genova, avrebbero accettato lo stesso di fare questo esodo senza ritorno, propagandato alla grande dal governo in quei mesi, se gli avessero dato la possibilità di stipendi più congrui a mantenere lì la loro famiglia. Avevano sei figli, dai 10 ai 19 anni, da mantenere e i loro esistenziali bisogni da soddisfare. E, allora alla fine, si dovettero convincere alla mobilità verso il sud, poco fuori Roma dicevano, e s’inventarono all’istante… “coloni“, loro che non avevano mai coltivato terra prima e si trovarono d’un botto ad occuparsi di un vasto podere argilloso su una duna quaternaria, sperduto dalle parti di Strada del Piano Rosso a Borgo Montello. E, chissà anche, se si sarebbero mossi i miei nonni paterni con ascendenze trentine e residenti ormai da generazioni nell’epicentro del teatro di guerra, ai piedi del Monte Grappa, che avevano esperienze di viaggi e di lavoro in America. Ma i nostri Veneti s’industriarono, comunque, laboriosamente su quello che era il “podere… regalato“, come si sente ancora (sic!) indegnamente dire, adesso, da qualcuno…E che impresa estenuante, al contrario! Il dispendio energetico e psicofisico era quasi sovrumano ma quel bene era raggiungibile definitivamente solo col più faticoso dei riscatti! Ed era il pater familias, il patriarca a decidere, dopo un piccolo consulto con i suoi, come pagarlo quel podere dell’O.N.C.: o in grano o in soldi, senza alternative. E mio nonno paterno, visto che i campi sullo Scopeto davano appena 18 quintali di grano per ettaro e si sarebbero così raddoppiati i vent’anni del riscatto, con il pragmatismo del saggio che era stato negli States a lavorare, decise che avrebbero pagato in… “schei”! Ma solo perchè lui, a differenza di tanti, se lo poteva permettere! E il riscatto, per una politica che non andava certo incontro e a favore dei coloni, fu anche differito per eviatare lo strozzo della povera gente al …1966! 33 anni dopo l’approdo in terra pontina il tormentato riscatto era compiuto, altro che regali del regime! Ma l’incertezza era stata grande, e non si sapeva mai, tanto che mio nonno aveva deciso di tenersi anche la casa in Altitalia finchè le cose non fossero diventate del tutto chiare. La casa Andreatta di Paderno fu tenuta fino agli anni ’60 finché non apparve loro che le sorti delle famiglie, che si erano formate nel frattempo, si erano ben stabilizzate nel Pontino, in quest’America in Piscinara. I vecchi, i pochi superstiti di settant’anni fa, sono naturalmente radicati alla loro avventura, e bisogna capirli. Quei “tempi della nostalgia” li rimandano indietro, li rimandano alla loro gioventù, alla bellezza dei loro primi furenti amori, al sentimento dei familiari scomparsi. Ai “veci“, come a tutti gli anziani, piace narrarsi…Ed è anche bello, perchè no?, sentirli raccontare su Latina quando si chiamava Littoria. Per loro è come ricordare l’alba del giorno, il momento in cui al sorgere del sole si rompe la tenebre e sale dentro un’emozionante speranza per quello che potrà accadere di meglio, tra poco. Eppure a me viene da dire, e forse mi sbaglierò, che noi “veneti-pontini” siamo stati “storicamente” imprigionati, come il cane nella palude di una fotografia da me scattata oggi a Fogliano, senza tante possibilità di liberarci, senza tante possibilità di crescere nello sviluppo civile. I veneti per molto, troppo tempo decentrati nei poderi, hanno tenuto le loro radici ben abbarbicate nella terra dell’agro pontino senza pensare che quelle radici potevano anche diventare… dei mobili piedi da mettere nella società, nelle sue professioni, nelle sue partecipazioni politiche. I ventimila veneti troppo a lungo, salvo qualche eccezione, sono rimasti fuori dal cuore della “polis pontina” e dalle sue questioni più pregnanti, fino ad apparirmi dei… ritardati sociali (absit injuria verbis). Lavoravano sodo, indubbiamente, per il riscatto della loro “Terra”, ma i loro ragazzi, spesi nella fatica, non studiavano, tranne pochi …Anche perchè mantenere i “fiòi” allo studio, negli anni ’50, costava “schèi ca no i ghe ièra!”.Quell’emigrazione interna, quasi forzata, che li ha condannati al camp, alla terra per trent’anni, assegnati ai separati poderi, ha indotto una regressione sociale, quasi generalizzata, avallando nel pontino, e specie nel lepino, l’idea di un colono veneto dalle braccia muscolose ma di chissà quale cervello. Il forzato isolamento nel reticolo degli sparsi poderi doveva, in effetti, procurare diffidenza nella comunità e arretratezza culturale. Ho conosciuto ragazzi schivi, poco propensi ad uscire dai loro cortili ma anche, per fortuna, altri aperti, espansivi, di allegra compagnia e, soprattutto, viva intelligenza. Il colono veneto come lo si violeva era, così, ben rappresentato, dall’icona de “il seminatore” littorio che ora giace nel portico del Palazzo dell’Agricoltura, bello, statuario, inerziale strumento nei programmi politici di altri, quasi macchina muscolare disponibile a poco prezzo…

 latina-seminatore-allo-specchio-fto-sergio-andreatta.JPG

Ma ora che anche il seminatore è arrivato, in questi giorni, a guardarsi allo specchio (foto) per cercare di capire, facciamoci anche noi un’autoanalisi. Ora con “il lento trascorre del tempo” come ha scritto Donald W.Winnicott, con l’integrazione tra etnie di vario genere, anche questi veneti si sono integrati, camminano accanto agli altri, hanno preso a prendersi cura dei problemi della città, hanno appreso a studiare, a farsi valere nelle professioni, ad emergere o stanno apprendendo le virtù del procedere verso un’altra società pontina.Abbandonata in gran parte la vita dei poderi, accettando di spersonalizzarsi dai miti e dalle primogeniture, è diventato per loro via via più facile rinascere.Quelle pseudo-primogeniture, comunque, non appartenevano a loro giacché in fondo, ma anche in principio, in queste terre si erano avvicendati diacronicamente anche altri pionieri.Noi veneti-pontini, così “modestizzati” ma più liberi, abbiamo il bisogno di abitare, oggi, la città in modo diverso, di camminare per strade “anche politiche” ben diverse, di lasciare l’immobilismo delle mitologie e dei “pantani che furono” per andare alla ricerca e alla sperimentazione di nuovi progetti di più dignitosa partecipazione e di più civile grandezza.               Sergio Andreatta © (aggiornamento di www.telefree.it  dello stesso autore).  

Commenti

Gentile sig. Andreatta,
Da qualche tempo osservo con piacere il suo blog e da altrettanto conservavo la voglia di lasciarle un messaggio.

Lo faccio a commento di questo intervento, perchè lo trovo veramente importante.

Sono venetopontino come lei, anche se di “prevalenti” origini friulane (nipote di co-coloni dei veneti, e quindi “venetopontino” nel senso più ampio del termine, secondo l’accezione “pennacchiana” del termine, se vogliamo) e solo in parte venete, e anche se giovane della quarta generazione (contando a partire dal “vecio” combattente).

E anche se di idee politiche di destra, non posso non trovarmi assolutamente d’accordo con quanto leggo, sulla improrogabile necessità di liberarci di un condizionamento che è allo stesso tempo un marchio e un limite importante all’esercizio tanto delle nostre individualità (personali o familiari) tanto della nostra identità “etnica”, oltre che alla generica partecipazione alla vita pubblica.

Lo dico quindi ammettendo esplicitamente che per me una coscienza “etnica” e culturale esiste ed ha valore, cosa che potrebbe non trovare pieno accordo e forse infastidire anche qualcuno, ma precisando pure che dal mio punto di vista questa non è (e non deve essere) in nessun modo motivo di presunzione di superiorità, nè tantomento ragione per alimentare qualsivoglia forma di segregazione e/o autosegregazione.
La mia coscienza e la mia visione di “gruppo etnico” non è neppure, credo, l’immagine di una realtà statica da conservare cristallizzata, ma la visione di una realtà venetopontina naturalmente in evoluzione, assolutamente importante per l’intera società pontina al pari di tante altre componenti culturali che in essa convivono e la determinano in modo spesso stratificato, realtà culturale che se da un lato è auspicabile possa mantenere qualche proprio spazio “di dominanza”, d’altro lato a maggior ragione non può continuare a rimanere ai margini della società pontina tutta, ovvero confinata SOLO all’interno di propri spazi residui, lontana dal contesto comune che ha nella “polis” (ideale, e reale) il suo luogo naturale di confronto.

In ogni caso, qualsiasi siano le visioni personali della “cosa venetopontina”, trovo assolutamente vero e purtroppo incontestabile da parte di chiunque il fatto che “troppo a lungo siamo rimasti fuori dal cuore della “polis” e dalle sue questioni più pregnanti” ed è stata proprio questa la principale forma di “segregazione”, propria sopratutto della parte più rurale e “borghigiana”, che io rifiuto e condanno.
Una segregazione che se da un lato ha consentito di conservare più o meno viva qualche tradizione, forse anche di mantenere in molti contesti un’effettivo ruolo “dominante” della componente venetopontina, di sicuro di continuare uno spirito di identità (a differenza del contesto più “emancipato” di tanti veneti di città) e con esso anche qualche residua ma significativa manifestazione linguistica originaria (talvolta, ma raramente, anche in noi giovani), d’altro lato ha fatto si che questa “conservazione” sia esistita solo (o quasi) confinata fuori “dalla polis”, solo in qualche borgo (città, si, ma priva o privata di capacità politiche) e forse preferibilmente lontano dal centro dello stesso, in fondo a qualche migliara, nel cortile di un podere o in fondo ad uno stradone di campagna: una “riserva indiana” lontana da ogni dibattito importante, lontana da qualsiasi centro di decisione, lontana dalla politica più sostanziosa, lontana anche dalla cultura (il che non significa che i protagonisti non posseggano o non producano forme di cultura, ma che queste o rimangono puramente “interne” oppure, soprattutto a livello giovanile, non parlano più con la lingua della propria specificità ma con quella del melting pot più amorfo e indistinguibile, uguale nell’agro pontino come a Roma, come a Milano, come a Londra).
Riserva indiana lontana in generale dal resto della società pontina che è cresciuta e continua a crescere con una molteplicità di contributi culturali, come è naturale e giusto che sia, perchè sempre così è stato.
Lontana dalla “polis” ma vicina veramente al “ritardo sociale”, ossia vicina a quei contesti che per loro natura (o forse anche per volontà) sono più conservatori, piu isolati, e più “lenti” ad evolvere (o involvere) per certi aspetti: realtà sociali di cui non si può certo star sicuri che quello che fin oggi si è conservato un domani non scompaia comunque, di cui non è affatto detto che ciò che è ormai scomparso altrove qui sopravviva in eterno: sta solo sopravvivendo per ora, ma domani?
Sposo quindi in pieno la pur difficile definizione di “ritardo sociale” sperando che nessuno ne abbia avuto a male, si può benissimo riferire alle realtà che conosco e da cui provengo e che, in ogni caso e nonostante questo, amo e riconosco “virtuose” per tanti altri aspetti, e nient’affatto inferiori per censo o livello di istruzione: tuttavia è evidente che queste abbiano reagito (nel bene e nel male) con maggiore lentezza e conservatorismo all’evoluzione generale della società, e spero che questa caratteristica sociale possa essere un domani solo una risorsa, mentre fin oggi mi sembra abbia significato fin troppo AUTOESCLUSIONE.

Infine è assolutamente vero che l’emancipazione VERA, ovvero la LIBERAZIONE da questo “confino” culturale e psicologico passa anche e prioritariamente per il rifiuto delle stereotipate ragioni di fede politica, che nella mia personalissima opinione non è necessariamente l’abiura del voto a destra (che solitamente incontra, come ho premesso, le mie preferenze), ma senza meno la fine di una retorica (soprattutto a destra, ma talvolta anche a sinistra) fatta si di alcune verità, ma anche di troppe omissioni, di tante banalità e di più di qualche falso, e la nascita di nuovo spirito di partecipazione (tanto a destra quanto a sinistra) da parte di chi, venetopontino, voglia e sappia affermare se stesso e la propria storia personale, familiare e comunitaria indipendentemente da qualsiasi posizione mentale precostituita, con l’equilibrio di riuscire a promuovere la propria identità senza negare quella degli altri o senza “rinchiudersi” nel fondo di un podere, a pensare fasso tuto mi con martèo e ciave senza il “corajo” o la voglia di partecipare al dibattito generale in prima persona e senza intermediari-ispiratori, con la disponibilità a confrontarsi costruttivamente sia con chi uno spirito etnico-identitario, pur diverso, lo conserva e lo afferma (primi fra tutti tanti lepini), sia con chi spirito “di gruppo” così “spinto” non lo conosce o non lo conserva più, ma ugualmente contribuisce alla società.
Spirito di partecipazione che dovrebbe venire sia dalla coscienza della propria specialità, sia dalla coscienza di essere inevitabilmente parte di un unicum sociale, che è sempre più anche un continuum: tanti di noi sono anche lepini (anche quando si prescinde dal sangue o dalla forma “del mucco”), sempre più romane o casertane sono le nostre donne e i nostri uomini, sempre più moldoviani i nostri amici.

La componente venetopontina tutta continua ad integrarsi e ad integrare, e ad informare di sé e della propria storia le giovani generazioni, e lo fa continuando a riservarsi l’immagine di ruolo fondante all’interno dell’intera società pontina (io credo giustificatamente per gran parte delle realtà della nostra pianura, benchè certo pensiero lepino tradizionalmente lo contesti), è vero, ma continua a farlo non solo con a fianco l’immagine del fascio littorio (che già di per sé è un limite), ma per giunta con modalità cristallizzate e retoriche, con poca pluralità di punti di vista , con scarso spirito di confronto (e ancor più scarso sforzo di documentazione), ma quel che è peggio con pochissima modernità: quante sono le voci che ci ricordano dei pionieri, dei loro sacrifici ed anche delle loro culture, quando scorazziamo per le bancarelle della fiera della lestra, o per quelle del corso nel periodo natalizio, o nelle televisioni locali o nel dibattito politico? e fra queste poche quante sono quelle che sanno veramente cogliere la prosecuzione di questa “venetudine dei vecchi” (e “da vecchi”) nella realtà odierna, nell’educazione giovanile e nel “corpus culturale” della società pontina?
In altre parole, quanto questa informazione di sé che si continua a dare è convincente, prima che veritiera? quanto è interessante e quanto interessa? quanto viene raccolta dai giovani, figli e nipoti di “cispadani”, per non dire dai figli di lepini, romani e romeni, che sono nostri amici, nostri colleghi, nostri vicini e in ogni caso cittadini che insieme a noi continuano a costruire il proprio benessere e la nostra (di tutti) civiltà?
La mia idea è che esiste davvero una specialità grande della nostra società pontina (in essa includo sempre, come mi sembra naturale, anche l’intera comunità lepina), ed è anche determinata in misura importante anche dalla componente venetopontina: ma di questa specialità si è ancora poco coscienti, e si rischia di indebolirla rimanendo noi così estranei alla vita pubblica e culturale (poche eccezioni a parte, come lei stesso dice).

Mi scuso per la lunghezza e il carattere forse un po’ disordinato del mio intervento, scritto “così come è venuto”.
Le faccio i complimenti anche per la bella foto (il soggetto è una metafora forse con più di una interpretazione possibile, ma credo tutte interpretazioni assolutamente pregnanti), e la saluto ringraziandola per le sue parole!

Commento davvero significativo e ricco di ulteriori spunti di riflessione. Grazie.

Questo articolo e il commento ampio che ne segue mi sorprendono per la ricchezza degli apporti. Meritevole di una tavola rotonda in Sala Conferenze.

Egr. Sig. Andreatta,
sono nipote di “veci” veronesi, il mio cognome figura con mio sommo oroglio sul monumento! Ho notato che si rimane Veneti anche se nati a centinaia di Km dal luogo di origine! ..almeno a me ed ad altri mie amici succede così! Sarà ma i geni restano quelli… Con l’adunata degli Alpini ho rivisto rifiorire Latina! riportare la civiltà in una città diventata sempre più meridionale gretta e insignificante!!! mi permetto di dire questo perchè sono cresciuto circondato da valori che non cambierei mai e poi mai con quelli di altre etnie! Famiglia Lavoro Dignità e Rispetto! Lungi da me fare retorica, falsi moralismi e politica per partito preso… Ma ho notato (sempre con dovuto orgoglio) che il Veneto si distingue a colpo d’occhio tra la gente di Latina! ..non voglio parlare male delle altre etnie che nel bene o nel male convivono nell’area pontina! ma continuo a notare servilismi e lassismi vari! sarà il nostro diverso modo di pensare..non so spiegarmelo!!! Eppure non sono ancora “vecio”, ma nemmeno un “bocia”! ma non capisco cosa a Latina sta succedendo! Ormai è diventata una città senza ossatura…grazie ai non-coloni!!! e sinceramente a me dispiace sapere che i miei “veci” e “il mio combattente” sono partiti da così lontano per creare una città dalla palude e sapere che i meridionali se ne sono impossessati e l’hanno rovinata… mi fa male solo al pensiero!!!!
Preferisco autoescludermi ma rimanere fiero e orgoglioso VENETO!

Saluti

Gianluca

Alla costruzione della Società Pontina hanno contribuito in tanti e prima ancora dei nostri veneti pionieri, almeno 5 anni prima, i scavafossi molisani di Sessano (IS) donde il nome del primo abitato-cantiere di Villaggio Sessano, poi Borgo Podgora dal 1933. I Veneti, certo, ma quanta retorica… e quanta strumentalizzazione politica. Oggi Latina è un invidiato caleidosopio di etnie e di culture, una città dinamica di 130.000 abitanti, dall’originale “veneta” di 5.000, che mancano, però, ancora di un giusto senso di appartenza. Ma questo è già il futuro… che non può essere ricercato che nell’educazione e nell’integrazione di un nuovo umanesimo più che nel ribadimento di unica identità elitaria.

Lascia un Commento

Devi essere loggato per lasciare un Commento.

Categorie