BAMBINI UNA VOLTA
Ricordando la “Convenzione per i diritti dell’Infanzia e dell’adolescenza”, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989, venerdì 18 novembre 2005 anch’io lanciavo “Il mio appello per l’educazione” mentre lo stesso facevano, tra emergenza e questione nazionale, altri sessanta intellettuali italiani.
Da dietro le quinte del boccascena oggi vedo l’assenza di un attore protagonista. Sempre meno il copione educativo, per la sua rappresentazione scenica, registra il qualificato coinvolgimento della famiglia. Ma perché mai della primaria e così importante questione della formazione dovrebbe occuparsene in esclusiva il pianeta scuola, prima ancora che gli stessi genitori?
E perchè, considerando gli effetti della sua ricaduta, non dovrebbe interessare più fortemente la stessa società?
Un episodio.
“Il sindaco, il parroco e il dirigente scolastico passeggiano insieme in una città della cintura metropolitana di Torino.
I cittadini salutano parroco e sindaco, ma chi riceve il maggior numero di saluti è il direttore.
Il sacerdote sorridendo commenta:”Buddisti e islamici… non vengono in chiesa, questi. Non sempre il sindaco è conosciuto, ma il dirigente scolastico lo conoscono tutti” (da Scuola e Didattica, n. 6/2005).
Fa riflettere.
Da una parte la centralità della scuola, dall’altra la necessità di un’alleanza strategica, di un patto educativo nella stessa comunità tra enti ed agenzie educative in rete (dove “rete” potrebbe anche voler dire che “siamo tutti sulla stessa barca”e bisogna remare in sìncrono).
Inderogabile, vedo, la necessità di un patto etico con la famiglia, per promuovere e curare insieme e più efficacemente la migliore qualità del processo educativo, per sviluppare al meglio l’integrazione interculturale tra le plurali e diverse etnie di studenti, per valorizzare ognuna delle diversità esistenti, per legittimare le migliori aspettative sugli esiti.
I problemi si risolvono, è ormai dimostrato, prima ancora che sul piano didattico nella dimensione “politica” e della comunicazione. Quindi il piano pedagogico diventa metacognitivo e sociale.
Un patto bilaterale con le famiglie e un progetto attraverso cui i valori condivisi entrino in classe diventandone parte del patrimonio comune, speranza e impegno per lo sviluppo di personalità.
La saggia partecipazione dei genitori, la loro condivisione delle sorti scolastiche del figlio gli procura sicurezza emotiva. Promuove e attiva coerenza tra gli stili educativi dell’istituzione e quelli della famiglia.
La partecipazione, intelligente e non ingerente, sviluppa una favorevole situazione dal punto di vista del clima educativo con formidabili ricadute positive sulla stessa qualità dell’apprendimento.
E, invece, ogni tanto qualcuno, guardando agli effetti e senza occuparsi delle cause, gode a definirci un popolo di ignoranti e di analfabeti. Perché?
Perchè il 25% degli studenti di terza media disimparerebbe presto tutto quel poco che aveva faticosamente appena appreso? Il ragazzo non ha mai appreso, prima, in modo “significativo” perché forse nessuno lo ha giustamente aiutato…
Studenti analfabeti moderni, “illetterati”, li hanno qualificati Franco Frabboni e Tullio De Mauro, due esperti tra i più quotati del panorama accademico italiano.
Alla radice il fenomeno dell'”analfabetismo funzionale di ritorno” mi sembra essenzialmente dovuto alla mancanza di un preordinato insegnamento/apprendimento significativo.
Questi “poveri cristi” (dovrei dire “deprivati culturali ” per studi di sociologia) non hanno avuto neanche il tempo o l’occasione giusta di gustare il piacere della cultura, di percepire l’utilità di un buon apprendimento che ne sono stati o ne saranno subito estromessi. Ma vorrei sapere se c’è stata o no per loro la mano tesa, accompagnatrice (“educente”) del loro insegnante? E avrà, questi, riflettuto sull’importanza strategica, per quel ragazzo e per la stessa società, della sua opera spesa in un modo anziché in un altro?
Le migliori storie di sviluppo della personalità, le storie di successo sono, sempre, costruite da un mix di contributi dove all’integrazione scolastica e sociale concorrono insieme vari agenti partendo dalla simpatia/empatia, dalla solidarietà, dalla sicurezza sociale prima ancora che da un’erogazione, tout court, dei saperi.
L’azione educatrice per essere particolarmente efficace va esercitata, col possesso di giuste competenze e al momento giusto dell'”attimo fuggente”…
Mi preoccupano certi atteggiamenti professionali, insanzionati perchè insanzionabili ancora, di certi professori delle secondarie.
Mi preoccupano alcuni liberi professionisti che fanno i professori … in fretta, complementarmente ad altri impegni più lucrosi. Mi preoccupano ma dovrei, onestamente, dirne male, Ministro.
Professori senza nessuna valida connotazione e competenza psicopedagogica buona per trattare la formazione di adolescenti.
L’esperienza di Collegno, raccontata da Rizziero Zucchi nelle pagine della rivista citata, può essere emblematica di un progetto che si vuole curare con sinergia d’intenti.
In quanto all’Appello sull’Educazione di sessanta intellettuali svegliati dall’incapacità “di una generazione di adulti di educare i propri figli”, quell’allarme per me non è nuovo. Niente che non si sapesse nelle scuole e che non si toccasse già con mano nelle aule.
Eppure proprio i docenti che vivono in mezzo a questi problemi, a volte incredibilmente seri, non sono stati chiamati a sottoscrivere, neanche in rappresentanza, questo appello. Eppure tra i dirigenti scolastici e i docenti, che non sono solo di corvèe nella scuola o come sponda di comodo, ci sono risorse intellettualmente avanzate e impegnate.
Anche loro, almeno perché “addetti ai lavori”, saprebbero facilmente denunciare, più di ogni altro, più del giornalista, più di CL del povero don Giussani, più… ma non lo fanno, forse per non esorcizzare le loro colpe.
Per la sola denuncia bastano le cronache di ogni giorno. O abbiamo già dimenticato la folle corsa notturna a suicidarsi contro un muro di un gruppo di giovani “normali a scuola, in casa, all’oratorio” o qualcuno dei tanti episodi che rimbalzano, rincorrendosi in folle gara, su You Tube.
A sedici anni, nel deserto di una situazione familiare, si può già decidere di sfidare la morte, correndo anche il rischio di perdere…
E, tuttavia, non vorrei né generalizzare né allarmare più del necessario tutti i destinatari del messaggio. Si intravede una schiarita con segnali di cambiamento e di partecipazione ai processi. Una partecipazione, forse meno alla formale vita degli organi collegiali e più per i destini esistenziali dei propri figli, da parte di un buon numero di genitori consapevoli, neanche per la prima volta, esattamente del loro ruolo educativo. No, non abbiamo, giornalmente, da trattare per fortuna soltanto con… “genitori sbagliati” come li definiva in un suo libro Andrè Berge ma anche con altri. Benefici “costruttori” del futuro dei loro figli, anche se non so definirne statisticamente la percentuale. E tuttavia non dobbiamo trascurare mai nessuno, sapendo non abbandonare nessuno al suo destino. Diamoci sotto per scuoterlo, per aiutarlo, per tentare di decondizionarlo, di riprenderlo a un cammino accettabile. Se non alimentassimo dentro di noi, come speranza, questo piccola fiammella perchè dovremmo continuare a lavorare ancora, dopo quarant’anni di esercizio, in questa notte e in questo campo così difficile?
E quale fiducia potremmo assicurare, se fossimo sfiduciati noi stessi, a genitori totalmente incapaci o insufficienti?
No, non basta più solo denunciare, signori miei, fare appelli clamorosi. Occorre mettersi in discussione e provare, comunque, a seminare con le proprie mani.
E farlo, farlo tutti insieme con la migliore “politica” sostenibile da ognuno, già darebbe quella svolta fondamentale di cui ha bisogno oggi l’educazione. Sine qua non….
© Sergio Andreatta,
psicopedagogista, autore del libro “Bambini una volta” e di altri saggi.