9th Dic, 2009

Il risveglio nella solitudine

Il risveglio nella solitudine

La ricerca del silenzio.

di Sergio Andreatta

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Valori del silenzio e della solitudine… Il silenzio di un cercatore di se stesso (Diogene, Socrate, …) o di un cercatore d’oro lungo i greti di un fiume della nuova frontiera americana o della Valle d’Aosta, di un navigatore solitario per le rotte dell’Atlantico, di uno scalatore dell’Everest, il silenzio di un eremita (Padre Luciano Proietti dell’Eremo di S.Egidio di Frosolone), tutti i silenzi immaginabili e quelli non, se elettivi e non condizionati da altro da sè, possono rappresentare un’occasione unica di liberazione della propria personalità e di autorealizzazione significativa.

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Ama il silenzio la gente non comune in cerca di elevarsi che sa diventare capace di stare da sola senza morire di noia, senza soffrirne. Ogni silenzio, ogni solitudine ha, beninteso, la sua motivazione e si incanala un po’ alla volta in una sua espressione, spesso non verbale. Ogni solitudine, anche quella in varianti non silenziose, ha la sua psicologia (Antonio Lo Iacono, Psicologia della solitudine, Editori Riuniti). Ma una solitudine ponderata, liberamente scelta non può aver mai, comunque, i connotati di una fuga da qualcuno o da qualcosa, dai problemi, dai tormenti. Perchè se uno abbraccia, ad esempio, la vita religiosa, magari monastica o magari anche missionaria per sfuggire più lontano, per sfuggire ad una profonda delusione d’amore o di vita d’altro genere, ha solo creduto di spostare il suo orizzonte, in realtà dentro di lui al tormento non subentrerà mai l’estasi a meno di una vera conversione successiva, di una vera pacificazione interiore. La solitudine scelta può essere, al contrario, l’occasione per incontrare se stessi nel silenzio, per conoscersi meglio, per accettarsi quali si è. “Nosce te, nosce te ipsum“, “conosci te spesso” raccomandava Platone  (Protagora) e così anche si trovava scritto come ammonimento, secondo i Sette saggi, nell’epigrafe posta sul frontone del tempio di Delfi. Conoscersi oltre gli inganni e le apparenze effettuali, nella storia personale ricercare l’essenza, oltre i propri avvertiti limiti magari in Dio, se in lui la si pone. “Silentium!” trovo inciso in una parete di fondo del chiostro cistercense dell’Abbazia di Valvisciolo, se non avesse un valore riconosciuto e condiviso, se non fosse per favorire l’ascolto della voce che sale dal cuore quel messaggio solo formale, di Regola, non avrebbe senso.

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Un percorso di solitudine nel silenzio non può confondersi con il solo gesuitico “esercizio spirituale” della durata di un mese una volta nella vita o con qualcosa di simile, o di terapeutico che pur esiste anche per una visione laica, ma con la sistematica pratica dell’esame di coscienza e dell’autoanalisi per far riquadrare i conti con se stesso prima di ripartire per l’ambaradàn (che non è solo confusione e trambusto ma diventa oggi vera e propria battaglia esistenziale) del giorno dopo. E’ noto, però, come per molte persone non ci potrebbe essere maggiore sofferenza di quella cagionabile dalla solitudine. Esse si sentirebbero perse nel deserto, disorientate; in affanno quando, per una qualche causa di forza maggiore, ci capitassero anche solo momentaneamente. Così per distrazione o per abitudine ci si circonda del superfluo, di tutti i possibili ammennicoli tecnologici votati a fuorviare da se stessi o magari anche di una rete di pseudoamici, formata da quel centinaio di persone su Facebook, che tutti abbiamo. Poi quando arrivano le feste di Natale o le ferie conosciamo persone che piombano nel disagio più profondo, nel vuoto per la mancanza di “maniglie”, di quelle rigide certezze (di Tullio Tentori cfr.: Il rischio della certezza) e di quegli effimeri organizzatori temporali e sociali offerti dal “gruppo di pari” o dal ritmo del lavoro e dai rapporti d’ufficio. Talvolta anche la religione funziona da organizzatore ausiliario, tale da offrire delle comode maniglie in questo senso. Ma la più dolorosa e penosa di tutte le solitudini esistenziali è quella meno apparente, quella che si riempie la giornata di rumori, di presenze immaginarie o pseudo-relazionali come quelle offerte dal bombardamento della TV o dallo stesso PC che al massimo possono offrire un surrogato di interattività fredda, senz’anima. C’è, quindi, la solitudine che non vedi, non senti e che stenti a pensare, la solitudine propria degli iper-attivi che si riempiono di tutte le iniziative possibili, che diventano animatori degli altri, che spesso si prodigano anche nel volontariato per gli altri. Questa è la solitudine di coloro che si ritengono indispensabili in ogni situazione e che non vedono che “di persone insostituibili sono piene le fosse” come diceva Clemanceau. Questa solitudine dei sempre-indaffarati-in-tutto è davvero la più subdola, un vero male oscuro che pervade tutti i meandri più carsici della loro anima, seppure l’impegno sul momento li gratifichi, e che spesso contagiosamente si trasmette a chi gli sta intorno. Una solitudine che, se non sono pronti a rialzarsi con una valida e motivante alternativa, quando soprattutto vanno in pensione, dopo tanti anni di intensità, (mio obiettivo o mia condanna imminente), diventa una reazione neurobiologica, forse una vera e propria chimica cerebrale, che può isolarli e consegnarli al baratro della depressione e al crack (John Cacioppo e William Patrick, Solitudine: la natura umana e il bisogno delle relazioni sociali, USA). Questa breve riflessione sulla solitudine mi è frullata in mente per un innesto di pensieri (dopo altri in occasione della mia presentazione del libro di Luciano Proietti “Elogio della vita solitaria”) con l’odierna lettura, in Chiesa Pontina, dell’articolo di Daniele Efficace e degli amici di “Camminoinspes” sempre alla ricerca di quel mitico “deserto” che gli può riposizionare l’esistenza sulla base della road-mapp spirituale di cui si sono muniti. Tra loro alcuni aspiranti diaconi che hanno scelto la chiave telogica per l’interpretazione e la soluzione della loro esistenza. © – Sergio AndreattaRiproduzione Riservata. 

P.S. Ho usato scientemente “gli” per “loro, a loro” perchè Tullio De Mauro mi ha finalmente convinto che ora si può usare.

Commenti

Preciso ancora che per gli Amici di CamminoinSpes “deserto” sta per: silenzio-ascolto-meditazione-preghiera. Poi dopo questo intervallo si rituffano nella vita comune familiare, sociale e lavorativa. E ogni venerdì sera l’incontro di preghiera per un’ora. Nella ricerca della pace di se stessi e di Dio che, come dice Paolo di Tarso, … supera ogni intelligenza.

Caro Sergio hai proprio ragione, ogni venerdì andiamo ad abbeverarci alla “Sorgente” unica capace di dissetarci o se preferisci il paragone come anfore vuote che si mettono sotto il getto della sorgente, la cui acqua riempie, rinfresca, tracima, pulisce, da vita. In Spes

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