Una puntata veloce all’Abbazia di Fossanova
Quando due cuori si amano possono trovare qui la benedizione di Dio.
di Sergio Andreatta
Per cogliere tutte le sfumate e magiche suggestioni del posto sarebbe meglio venirci in primavera o nelle altre stagioni di mezzo ma anche nei freddi giorni di questa epifania 2010 l’antico borgo mantiene tutta la sua magnificenza… Con lo scavo della cloaca o “fossa nova”, primo tentativo di bonifica dell’agro pipernate operato dai cistercensi a partire dal 1134-35, prese avvio il risanamento delle fertili campagne allo sbocco della Valle dell’Amaseno ai piedi dei Monti Lepini. Ma un’abbazia antecedente, fondata dai laboriosi monaci benedettini, era già sorta da queste parti sui resti di una villa romana del I secolo a.C. Si entra a piedi nel vicus, facendo un salto a ritroso nel tempo di nove secoli. Il borgo medievale, ancora oggi basato su un’economia prevalentemente agricola, si presenta ben conservato e per gran parte ancora detenuto in proprietà di boschi, fattorie e botteghe degli eredi della Famiglia Di Stefano… Nella sua monumentalità architettonica, per i modi di costruire tra il romanico e il gotico portati per la prima volta in Italia dai cistercensi (1187-1206), domina in altezza l’antica Abbazia. Sull’alto transetto (photo 3 by Sergio Andreatta) si leva, infatti, la torre ottagonale del tiburio con belle bifore dalle quali immagino si potesse sporgere, quasi come un muezzin, l’abate nelle sue vigili funzioni di controllo delle molteplici dinamiche del monastero. Ma già la facciata della chiesa si impone di per sé per la decorazione cosmatesca del portale e, soprattutto, per il magnifico rosone (photo 2 by Sergio Andreatta). Entrando all’interno resto sempre colpito dall’esemplare architettura cistercense primitiva, spoglia e priva di affreschi, con le tre navate sostenute da svettanti pilastri e con un transetto con coro rettangolare. Camminiamo sopra un pavimento da poco restaurato, pure da qualcuno non so perché criticato. Entro nello spazio nudo, essenziale, nel richiamo monastico al “memento mori”, sembra quasi di doversi interpretare, forse a voler tenere il monachello, che poteva sfuggire in preda alle incalzanti tentazioni sensoriali, legato all’immagine della sua fragile ed effimera umanità, invitandolo di continuo all’autopenitente disciplina attraverso il dominio delle passioni. E al dominio su se stessi non concorreva e non concorre qui dentro, tra i passi ritrovati per questi lunghi corridoi, una qualche filosofia greca antica ma il pregnante spirito religioso del fondatore. Ma quanti di quei monaci avrebbero potuto, pur con le parole del tempo, dire come Olivier Clément (introduzione al libro, Taizé, E.P., 1998): “Mi stupisco di esistere, di respirare e camminare, ma ero anche angosciato dal nulla in cui tutto sembrava inabissarsi. La mancanza di senso lasciava troppe domande senza risposta… A poco a poco ho cominciato a intuire la presenza di un senso: la morte non aveva l’ultima parola…”. Non poteva averla… E fu proprio la semplicità, o meglio l’aspetto spoglio e caratteristico delle pareti, che ci fecero scegliere questa Abbazia per la celebrazione del nostro matrimonio il 20 luglio del 1974 (photo by Studio Moretto). Qui Dio avrebbe benedetto il nostro amore. Ma in quei giorni accadeva pure qualcosa di importante e la data delle nozze all’ultimo momento sarebbe stata spostata, anticipandola di due giorni dal sabato al giovedì. Erano i giorni della storica ricorrenza del 700° anniversario della morte, qui avvenuta al piano superiore della foresteria (photo 4 by Sergio Andreatta), del sommo teologo e santo Tommaso d’Aquino e, alla fine, Papa Paolo VI aveva significativamente deciso di non far mancare la sua presenza. Così da un borgo tirato a lucido per l’occasione, con grandi ciotole di fiori ovunque e giare e splendide buganvillee inerpicate sulle pareti delle antiche case dai cromatici intonaci e sulla torre merlata, trovava smalto il nostro matrimonio ed esaltazione lo scatto fotografico dello Studio Moretto. Tante emozioni, anche a distanza di anni, non sono evaporate e tornano a vibrarci nel petto, non meno delle suonate del grande organista (Padre Germani) che aveva accettato di esibirsi per noi… Una volta qui il visitatore, anche frettoloso, non può tralasciare, seppure già visto mille volte prima, una rapida entrata nel chiostro (1280-1300) che si presenta contornato da colonnine binate, romanico su tre lati, gotico nel quarto, con un’edicola a copertura piramidale. E intorno al chiostro si aprono le varie sale di quella che era la piccola autonoma polis religiosa, dalla sala capitolare illuminata da due grandi bifore, quasi un aiuto a schiarire le dispute alte della scolastica o quelle minime del governo quotidiano della comunità, al calefactorium dove intorno al grande camino i monaci si riunivano cercando riparo dai rigori dell’inverno da sempre più impietosi verso gli anziani, al refettorio con l’evidente pulpito per la lettura delle sacre scritture durante i pasti silenziosi, come prescritto dalla Regola… Il freddo del tardo pomeriggio si fa via via più pungente tanto che, più che virare a sinistra verso il museo, puntiamo dritti al bar per una cioccolata calda e poi una frettolosa visita alle botteghe per l’acquisto di biscotti, cioccolata fondente dei trappisti e tisane che promettono i più antichi ed efficaci rimedi a tutti i mali… Provare per credere. © – Sergio Andreatta – Riproduzione riservata.