Caravaggio, la passione per la realtà nel sacro e nel profano. In un convegno all’Eremo molisano di S. Egidio la professoressa Roberta Lapucci dell’Università di Firenze spiega perchè bisogna saperlo vedere e osservare nella sua “ottica“.
Il punto sulle ultime ricerche diagnostiche sulle tele del grande pittore di cui ricorre il quattrocentesimo della morte.
di Sergio Andreatta
“A contare per Caravaggio – scrive Vittorio Sgarbi in “La passione della realtà” – non è tanto ciò che sta dentro la pittura come suo soggetto, … quindi il tema storico o religioso, bensì come il pittore dipinga. … il problema è di visione del mondo, di intelligenza della realtà“. Così ogni suo quadro non sarebbe altro che l’idea che il pittore ha della realtà, “la sua percezione della realtà… e per la prima volta non troviamo un’idea precostituita della realtà ma un “naturalismo assoluto“. Se la prima parte del concetto di Sgarbi su Caravaggio (la sua sensopercezione) mi sembra perfino ovvia in quanto applicabile a tutti, la seconda introduce invece delle peculiarità. “… Il realismo caravaggesco non ha nulla a che vedere con il realismo come noi immaginiamo la riproduzione del reale, ed è lontanissimo anche dalle fotografie cui pur tanto assomiglia e che tanto prefigura; esso rappresenta piuttosto la capacità di evidenziare una realtà dell’anima, una realtà cioè in cui il vero sta nelle situazioni interiori“.
Duecento chilometri mi separano dal convegno “Caravaggio, il sacro e il profano” che si svolge nel quarto centenario della morte in un piccolo eremo della montagna molisana. L’idea-progetto, patrocinata dal Liceo classico statale G.A. Colozza, oggi istituto onnicomprensivo, di Frosolone (IS), è dell’eremita padre Luciano Proietti. Sembrerebbe un ossimoro questo ma non per chi conosce la vasta cultura del francescano. Ho presentato nell’Aula Pacis del IV Circolo didattico di Latina il suo profondo libro (Elogio della vita solitaria, Effatà Editrice, Torino, 2008. Prefazione di Anna Maria Cànopi OSB, copertina e illustrazioni di Giorgia Eloisa Andreatta) e ora non posso più stupirmi per le sue molteplici e varie iniziative, anche culturali, sapendo che non lascerebbe mai nulla di intentato per recuperare all’ovile le sue pecorelle. La giornata di fine primavera (5.06.2010) ai 1125 metri sul Monte Gonfalone, a 3,5 km. sopra l’abitato, è stupenda, ricca di vividi colori e intensi profumi. Siamo nel cuore del Molise più profondo, nel magismo di luci pure e ombre tanto care al grande pittore lombardo. “La Chiesa parla agli artisti”, padre Luciano Proietti è così abile maièuta da sviscerare tutte le “naturali parentele tra fede e arte” richiamandone, in apertura, passi e passaggi, a partire dal Concilio Vaticano II, per inoltrarci nella sapiente rassegna dei pronunciamenti dei papi post-conciliari. Seduti nei malagevoli banchi della chiesetta di S. Egidio, misurato contrappasso ai nostri molti peccati, siamo catturati dalla teoria delle sue puntuali citazioni e da un pensiero imperniato sul “bisogno di bellezza… per non oscurarsi…” che ha il mondo in cui viviamo. Nell’arte, nell’immagine egli afferma di riscoprire un forte principio cristologico, una parte integrante del culto quasi in opposizione al deserto dell’iconoclastia che pure non dovrebbe non affascinare neanche poco un eremita votato alla meditazione e all’ascesi e per ciò stesso amante del vuoto fino a diventare un elogiatore della vita solitaria. Un altro ossimoro. Ma, ecco, che senza sforzi particolari la “via veritatis” viene fatta coincidere con la “via pulchritudinis”, nella bellezza come forma superiore di conoscenza e di accostamento a Dio, nel necessario dialogo tra estetica ed etica capace di riscoprire e capace di usufruire a pieno di tutti i nessi esistenti nel linguaggio delle immagini e dei simboli. E così che per questa estenuata strada si dimostrerebbe ancora una volta vincente, alla ricerca di una pastorale nuova e più attuale, il valore pedagogico dell’arte, stilema per altri versi già emerso nel lontano Concilio di Trento e, quindi, noto al Caravaggio e ai suoi committenti dell’epoca. Ma ad esso, il pittore maledetto, quasi a volersi liberare da un’odiosa regimentazione, da un legge-bavaglio ante-litteram, nella sua potenza creativa cercò in tutti i modi di sottrarsi, nelle modalità concesse e tollerate dai tempi, fino ad apparire eretico in alcune sue modalità espressive. Il suo principio di “fedeltà al vero” subisce infatti di continuo l’imprinting de “i moti dell’anima“, cioè di una realtà percepita e che si deforma attraverso le espressioni dei sentimenti. “La Chiesa parla agli artisti” è il I Quaderno della Collana “Fede e Arte” che raccoglie il pensiero del Proietti… Ora Tonino De Luca, professore emerito di storia dell’arte al liceo locale, presenta il contesto pittorico del ‘500 (il manierismo) cui oppone la ricerca caravaggesca che si indirizza al naturalismo e all’illuminismo, al principio motore di una sua religiosità particolare e popolana che si ispira ad una visione pauperistica della Chiesa e alla salvezza dell’anima ricercata magari anche nella trasgressione esistenziale più spinta. Ed è così che, a questo punto, non può mancare pur nell’essenzialità un tratteggio della sua biografia. La moderatrice, prof.ssa Marika Giordano, si sforza di imbastire discorsi così tanto diversi tra loro. In una ricerca di leggerezza e per l’arte dell’ascolto un duo musicale, violino e tastiera (Max Santomauro e la valente Sabrina De Luca come partner alla tastiera), propone sotto la volta a botte dell’aula unica della chiesa eremitale gli intermezzi dalla Sonata n. 2 di J.S.Bach. Ma tocca finalmente alla prof.ssa Roberta Lapucci, docente di Conservazione, tecniche artistiche e Diagnostica in corsi di specializzazione per laureati presso l’Università di Firenze in chimica e dipartimenti di storia dell’arte e di Storia dell’arte nell’Università americana Saci e restauratrice, dar conto in anteprima delle sue ultime sorprendenti ricerche sulla pittura del Caravaggio (www.robertalapucci.com ). Siamo al vero clou di questo Convegno, agli attesi apporti di una vera autorità in materia per le approfondite sue ricerche e la vasta bibliografia pubblicata sul tema, al motivo conoscitivo e artistico per cui ci siamo mossi in sei da Latina. Ormai è dimostrato come Michelangelo Merisi da Caravaggio usasse la camera ottica e la “multiproiezione “ delle figure. Dimostrato in modo inconfutabile e la studiosa porta ad esempio il “Bacco”, mancino perché speculare, e il “Ragazzo col ramarro”, eseguito in due pose diverse. Qualcosa di più della sola ipotesi suggestiva fino a poco tempo fa accreditata che, oltre che nel gabinetto romano anche nelle sue varie peregrinazioni per l’Italia, l’artista portasse con sé da riutilizzare alla bisogna modelli in carta oleata da proiettare sulla tela e ricorresse all’espediente dell’uso di specchi, per riprodurre fedelmente delle figurazioni, con l’ausilio della luce passante per un foro stenopeico (camera ottica). Secondo la studiosa tale interesse dell’artista per la ricezione dei fenomeni ottici e prospettici sarebbe da far risalire già al periodo della sua formazione, all’ambiente lombardo-veneto, avendolo poi potuto sviluppare meglio durante il suo soggiorno romano presso il cardinal Del Monte (che possedeva un attrezzato gabinetto alchemico). Sembra, ormai, certo che il Caravaggio intrattenesse rapporti con il mondo scientifico dell’epoca della cerchia galileiana. E del resto i fenomeni di riproduzione di sagome proiettate mediante il principio del foro stenopeico erano già stati sperimentati anche negli studi anatomici di Leonardo e si ritrovano negli scritti di Girolamo Cardano e di monsignor Daniele Barbaro. Roberta Lapucci torna sul Bacco conservato agli Uffizi per dire: è mancino, “tiene il bicchiere con la mano sinistra”. A suo dire non vi sono precedenti in tal senso e appare chiaro che l’immagine sia frutto di “copia da una proiezione” ottenuta con la messa in pratica di metodi, peraltro, all’epoca assai diffusi nell’ambiente. “Basterebbe ribaltare l’immagine per avere un’immagine più naturale.” Nel Ragazzo morso dal ramarro: “Se proviamo a dividere il volto in due parti e allontanarle fra loro, appare evidente come il ritratto sia il risultato di un assemblaggio di due momenti di posa differenti: uno dove il giovane è più frontale e più illuminato rispetto all’altro – dice la studiosa davanti alle proiezioni che si susseguono carpendo l’interesse generale – oltretutto le dimensioni e i lineamenti non combaciano affatto”. Caravaggio, come nella vita, alla ricerca della più sublime espressione dell’arte subisce una suggestiva attrazione per la luce e l’oscurità, ne rimane catturato dalle potenzialità impressive, le sperimenta da tecnico (1595-1605) in uno studio molto simile ad una camera ottica: da un foro sul soffitto, al centro della stanza, fa penetrare la luce. Egli fa, quindi, un uso “scientifico” della luce. “…la luce nella stanza, con il trascorrere delle ore, cambiava di continuo, – continua Roberta Lapucci – e il sistema di lenti e specchi di cui egli si serviva andava fuori fuoco costringendolo ad una nuova messa in posa”. Dalla luce in continuo movimento deriva un effetto di ombre portate, un “fish eye effect” con la necessità per il pittore di un re-focusing continuo. Quindi per dipingere, ma non unico all’epoca, il pittore si avvaleva, nella sua spinta ricerca verso il realismo, dell’ausilio di strumenti ottici quali lenti e specchi, come ormai è asseverato. Circolava e destava molto interesse tra gli artisti colti dell’epoca il Magiae naturalis libri III di Giovan Battista Della Porta dove, un capitolo (XVII) è dedicato a “come alcuno che non sappia depingere, possa disegnare l’effige d’un huomo ò d’altra cosa. Purché sappia solamente assomigliare i colori”. Questa è la sorprendente scoperta, frutto di lunghe e accurate ricerche storiografiche (iniziate nel 1986 dallo studio dei suoi due primi biografi il Mancini (1617-21) e il Bellori (1672 -) e di indagini diagnostiche e radiografiche sulle “figure sbattimentate” cui è giunta la Lapucci partendo da alcune intuizioni di Longhi e supposizioni di Hockney (Il segreto svelato, 2000). Ma David Hockey ha anche scritto: “… la camera ottica da sola non dipinge” e: “ Il fatto che il Merisi usasse gli strumenti ottici – conclude tra la condivisione di un plaudente uditorio Roberta Lapucci, che ha continuato negli ultimi anni a cercare prove dell’uso di questi strumenti anche durante i soggiorni dell’artista a Napoli, in Sicilia e a Malta, – nulla toglie alla potenza espressiva delle sue tele, alla sua creatività e alla sua indiscussa genialità”. Un altro fondamentale tassello utile a comprendere meglio, e senza temerarie approssimazioni, il grande pittore e la sua opera fin nella profondità della svelata tecnica di composizione e nell’interpretazione stilistica. A seguire, in un convegno che ormai diventa lungo e faticoso, Elio Di Michele, “La fanga de Roma” (Palombi Editori, Roma, 2009), propone un ardito, quanto improbabile, itinerario con parallelismi tra una ventina di sonetti dell’irriverente poeta romano e romanesco Giuseppe Gioacchino Belli e le tele a tema “biblico” del Caravaggio. La parte più culturale si conclude con un più pertinente intervento del prof. Emanuele Troisi, ordinario di storia e filosofia al liceo classico che centra sul pensiero filosofico della fine del cinquecento e si sofferma in particolare sulle significative tesi di Giordano Bruno (De la causa, principio et uno, 1584) impregnate del circolante pensiero scientifico, sulla sua indipendenza di pensiero e la sua insofferenza verso l’osservanza dei dogmi il che lo portava, inevitabilmente, a cozzare con la contemporanea teologia ufficiale (tra cui, alla vigilia del Corpus Domini che ricorre domani, ricordo il suo rifiuto della transustanziazione). Rispecchiando in se stessa la struttura dell’universo, la mente umana, che ha in sé non le idee, ma le “platoniche” ombre delle idee (De umbris idearum), può tuttavia raggiungere la vera conoscenza, ossia le idee e il nesso che connette ogni cosa con tutte le altre, al di là della molteplicità degli elementi particolari e del loro mutare nel tempo. Si tratta in definitiva di attenersi ad un metodo conoscitivo che colga la complessità del reale, fino alla struttura ideale che sostiene il tutto. Qualcosa, la ricerca del metodo, che unisce la pittura del Caravaggio con la filosofia di Giordano Bruno. Per cui la conseguente accusa di eresia e la sua condanna al rogo a Campo de’ Fiori a Roma (il 17 febbraio del 1600) da parte dell’Inquisizione. Un altro ossimoro, ma tant’è, parlare di eresia e di condanna a morte comminata da un braccio della stessa Chiesa in una chiesa ma le vie e gli orizzonti del Signore, specie tra i pastori delle montagne molisane, sono… sempre infiniti. L’immagine artistica e l’uomo, l’uomo immagine e somiglianza di Dio e, forse come da tempo s’insinua pericolosamente anche nel mio pensiero, a compenetrazione (anche teologica) un Dio più vicino e per qualche verso a immagine dell’uomo. Si conclude così, con le parole finali del sessantaseienne francescano che ci ospita, questa lunga performance culturale ricca di eterogenei contributi, alcuni forse un po’ slegati rispetto al tema principale, ma i cui punti di forza sono da rintracciare, oltre che negli indirizzi pastorali di padre Luciano (il cui percorso spirituale degli ultimi anni si svolge tra i silenzi meditativi di queste antiche mura eremitali di S. Egidio e nel soprastante speco tra le rocce della Morgia Quadra attirando a sé come un faro tra le turbolente procelle della vita tanta gente in difficoltà che qui approda da tutte le direzioni, anche da molto lontano), fondamentalmente nella documentata relazione scientifica, ormai di prossima pubblicazione, della storica dell’arte ed elettiva studiosa del Caravaggio prof.ssa Roberta Lapucci di Firenze. Chiariti in parte alcuni misteri sulla sua tecnica pittorica, rimane in penombra il groviglio dei dubbi relativi, per la sua biografia, al mistero della sua subitanea fuga da Malta probabilmente per scoperta omosessualità, al mistero della sua stessa morte a Porto Ercole sulla rotta di una grazia papale che tardava a venirgli. Come tarderà, per i secoli di obblio in cui fu relegato, l’universale sua assunzione all’olimpo dei massimi artisti fino alla riscoperta critica della sua pittura avvenuta alla metà del Novecento ad opera degli studi, soprattutto, di Roberto Longhi (1951/1968)… Quando esco dal Convegno le sbiancate rocce della Morgia, dalla forma così tormentata da diventare parte peculiare di questo paesaggio e di quest’orizzonte spirituale, non splendono più sul vivace smeraldo dei pascoli. E i colori ormai quasi spenti se ne stanno già andando nella notte. © Sergio Andreatta – www.andreatta.it
Scritto da : Sergio Andreatta
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