“Parchè brusar ‘a vecia“?
La notte della befana era considerata nelle nostre campagne una notte magica.
Nella mia infanzia al podere 769 di Borgo Bainsizza la sera della vigilia era tutto un vociare allegro e uno stupefacente muoversi di noi bambini per il cortile.
L’agitazione era data dai regali che stavano per arrivare portati durante la notte come sempre solo dalla Befana.
Da diversi giorni ormai era stata accatastata tutta la legna che si sarebbe potuto bruciare, rimasugli di potature di vigne e rami di alberi altrimenti inservibili per il forno, stracci, cartoni, ecc…
Poi nel pomeriggio del 5 sulla sommità dell’alto falò servendosi di una scala si collocava la sagoma di un’orribile vecchia. “A striga da brusar” non era altro che un vecchio vestito da donna riempito di paglia, sotto un cappellaccio a larghe tese.
“Ma perché, mi chiedevo immancabilmente io, anche se è così brutta bisogna proprio bruciarla questa vecchia benigna, visto che viene a portarci i regali?”.
Nessuno ha mai saputo o voluto rispondere alla mia domanda…
Quando il buio era totale nei cortili si accendeva la “bubaràta” e via al gioco sadico, più che al rito, del “brusa ‘a vecia”.
“Poverina è ingiusto!” ho sempre pensato e protestato, ma invano! Nessuno ad ascoltarmi.
I nostri coloni veneti ridevano, intanto, bevendo a caldo il buon “vin brulè”, condito con chiodi di garofano e addolcito da fettine d’arancia, il cui fortissimo sapore, buono però, mi veniva su dal naso.
Faceva sempre freddo e, così, ne davano un goto anche a noi “toseti“.
Poi sudavamo tutti, senza avere la febbre, e non so perchè…
Qualcuno, più saputo degli altri, filosofeggiava leggendo auspici dall’andamento delle faville: sarà un buon anno nuovo, non sarà un buon anno, ci sarà tanto frumento oppure ne verrà poco…
Ma, senza tener conto di qualche disillusione precedente, prevaleva sempre la speranza di un miglior raccolto.
C’era qualcosa di vecchio, evidentemente, che moriva e molto di nuovo che si sperava: un fidanzamento, un matrimonio, la nascita di un figlio, un buon raccolto, buoni affari nelle varie imprese.
Poi noi, “tosi e tose“, subito a letto, non prima di aver appeso con trepidazione le calze sulla trave del grande camino della cucina.
E guai a restare svegli…, perché la befana non si sarebbe fermata sul tetto! “Ma se l’abbiamo appena bruciata come fa a venire?” arzigogolavo io tra me e me.
La mattina dopo era tutta una sorpresa.
C’era, sì e no, qualche raggio di timido sole aperto quando si abbandonava il caldo letto per scendere con un po’ di coraggio nella fredda cucina dove sul camino ancora spento faceva bella mostra di sé una sfilata di calze e calzetti di tutti i tipi e colori, belli gonfi, però, e qualche volte anche dinamici.
Si propagava subito il raro odore dei mandarini e c’erano noci e castagne, fichi secchi e caramelle, torroni e giocattoli, rarissimi giocattoli, in quei tristi anni cinquanta e tantissimo carbone…
Una macchina della “police” mi aveva strizzato l’occhio, una volta, con il suo attraente lampeggiare mentre mandava in giro il suo ruggente allarme.
Mi piaceva moltissimo, forse perché non avevo mai avuto altro, ma dopo qualche giorno quella gazzella non l’ho più rivista e non ho mai più saputo che fine avesse fatto l’unico giocattolo della mia infanzia. Magari una “strìga”, una befana cattiva con i bambini, era venuta a riprendersela.
In quanto alla calza che si muoveva il suo dinamismo era dato da un gattino che ora, finalmente, poteva uscire, anche un pò stordito e arrabbiato, a guadagnare finalmente la sua libertà. Di gattini, io, ne ho avuti tanti, forse perché non bisognava spendere per averli. Ma io ero felice così, per loro e loro per me…
La notte dell’epifania era considerata nelle campagne una notte magica anche per altri versi. Da qualche parte mi si diceva che gli animali parlassero nelle stalle e nei boschi.
Io, in verità, non li ho mai sentiti.
Ma in Val di Chiana, dove da grande sono andato presso parenti, si tramandano ancora le parole che si scambierebbero i buoi:
“Biancone!”
“Nerone!”
“Te l’ha data una ricca cena il tuo padrone?”
“No, che non me l’ha data!”
“Tiragli un’incornata, allora!”
Sarà per questo, forse, che quei furbi contadini d’Arezzo governano fieno senza risparmio la sera del cinque, per non ricevere quell’incornata!
I buoi dialogano… e dialogassero un pò anche i nostri politici pontini, come vorrebbe che facessero il nostro buon vescovo Giuseppe che non li vorrebbe in lite continua, e chissà che, parlandosi un pò di più, come gli animali delle stalle e dei boschi, non riescano a darci finalmente servizi e strade decenti e accettabili soluzioni per i rifiuti, per la sanità, per la scuola e per…(mettilo pure in lista il tuo desiderio!).
Faville a parte, voi cosa dite: “Sarà, in questo senso, un buon 2008 politico?”
© – Sergio Andreatta