Quando ”delocalizzare” le imprese ed “esternalizzare” i servizi può mettere in crisi le politiche sociali di un Paese.
di Sergio Andreatta
”Delocalizzare” le imprese, “esternalizzare” i servizi pubblici: nell’attualità economica italiana sembra non si parli d’altro, ora, ma possono essere solo questi i nuovi termini di ogni modernità nel campo del lavoro?
Le politiche sociali, la prospettiva antropologica avrebbero, dunque, perso parte della loro valenza tanto da contare sempre meno in questo Paese dove sembrerebbe tornar ad imporsi prima di tutto la ricerca del profitto da parte dei capitani d’industria? Ma è questo il giusto e ultimo approdo verso cui deve tendere la nostra politica dell’occupazione e la nostra economia?
Decine di migliaia di persone che perdono ogni giorno il loro posto di lavoro, trovandosi all’improvviso nella condizione di “disoccupate esistenziali e sociali” non hanno il diritto di saperlo e, soprattutto, non hanno più diritto a tutele sindacali? Le politiche sociali, se non si vuole entrare negli approcci accademici strutturali, funzionalistici o pragmatici delle scienze politiche, sono banalmente riducibili, si sa, ad una mera pratica confindustriale e di governo. Pratica pure storicamente mutevole, influenzabile ed influenzata, come è, anche dalle variabili contingenze economiche internazionali.
Si dice che questa corsa a delocalizzare degli imprenditori, non si sa se più avveduti che capitani di ventura o pirati, sia partita in Italia una quindicina d’anni fa e che stia avendo di recente una montante impennata trovando i suoi presupposti nelle agevolazioni fiscali offerte dai Paesi in via di sviluppo, nei vantaggiosi costi del lavoro, nelle scarse tutele sindacali e garanzie generali in cui versano in quello stato operai e maestranze.
Eppure alcuni di questi paesi, coma la Romania, sono entrati recentemente nell’U.E. e dovrebbero uniformarsi e sottostare alle stesse regole civili, più che organizzative, e ad un’analoga normatività di contratto. Vincolante.
Come potrà, sennò, l’Italia reggere alla lunga alla concorrenza sleale di sistemi dove gli operai sono retribuiti con 400 €. al mese? Albania, Macedonia, Serbia… quest’ultima venuta clamorosamente alla ribalta per l’intenzione ultima della FIAT di trasferivi – delocalizzarvi la produzione di un modello di auto mentre in Italia gli storici stabilimenti di Termini Imerese, Termoli, Pomigliano d’Arco e, forse, Piedimonte S. Germano soffocano già per mancanza di commesse e, soprattutto, di adeguati investimenti e cure menageriali vedendosi contratte le loro possibilità di sopravvivenza operativa, se non minacciata a breve la stessa chiusura. E quanto possano giovare gli accordi separati, il cosidetto “modello Marchionne”, cui molti imprenditori mirano ora in deroga al contratto nazionale, lo si potrà valutare soltanto in seguito, nel medio e lungo termine. Eppure la FIAT, secolare leader nel settore automobilistico in Italia, avrà goduto nel passato di politiche governative di sostegno e di abbondanti provvidenze erogate dallo Stato che le andava ad attingere e ad emungere dalle tasche di noi cittadini italiani, o mi sbaglio? Quindi, anche per questo sostanziale aspetto, la questione non può intendersi correttamente ora che come un problema politico-governativo (europeo probabilmente, forse anche di dimensioni mondiali per certe sfaccettature), prima ancora che soltanto interno-sindacale. Per non parlare poi dei nuovi mercati emergenti della Cindia (Cina e India) dove si va a fare impresa senza eccessivi rischi, potendo prefigurare i più lucrosi guadagni anche in virtù di condizioni quasi da neo-schiavismo in cui vengono sottoposti e mantenuti quegli operai. Stipendi da fame, indegni di una condizione umana, ma comunque ritenuti in quell’orizzonte più o meno lontano misure – seppur stentate – per una sufficiente sopravvivenza umana. Questa materia costituisce la prima incombente questione sociale (a studio di sociologi e antropologi per i tanti risvolti), la difficile scommessa ma anche una questione morale di fondo per il nostro Paese.
Che cosa, dunque, tra il profitto del capitano e il diritto costituzionale al lavoro del cittadino (art. 1 della Costituzione) deve avere la preminenza? O ancora meglio che cosa ha spinto fino allo strappo, fino all’infrazione del tradizionale equilibrio raggiunto, del bilanciamento tra la ricerca del giusto profitto da parte dell’indutriale e il conseguimento della giusta retribuzione da parte del dipendente?
Certo l’apologo di Menenio Agrippa (che spiegò l’ordinamento sociale romano metaforicamente, paragonandolo ad un corpo umano nel quale, come in tutti gli insiemi costituiti da parti connesse tra loro, se collaborano insieme sopravvivono, se discordano insieme periscono), sembrerebbe essere tornato della più grande attualità tanto da fare ancora scuola.
Da noi, qui a Latina, come in altre province, è intanto fallito il polo industriale, fallito il polo chimico-farmaceutico e quasi del tutto quello alimentare. E la Nexans, è il caso del giorno, ha ottenuto qualche respiro in deroga, grazie alla strenua battaglia degli operai e alla solidarietà dell’ex-collega e Premio Strega Antonio Pennacchi (Canale Mussolini, Mondadori), ma nessuna solida speranza per il futuro. Le assunzione degli infermieri nelle ASL sono bloccate e demandate, per le prestazioni di cui si abbia il più essenziale bisogno, a cooperative con cui ci si convenziona a costi inferiori mediamente del 20% pro capite; sono bloccate le assunzioni nella scuola, nel pubblico impiego, negli enti locali, nelle forze dell’ordine… Dovunque per le difficoltà del momento. Anche nel commercio la sfida provocatoria, ed esuberante per numero di licenze accordate, non poteva che essere vinta dalle logiche spietate dei centri commerciali a danno dei piccoli negozianti e delle imprese a carattere familiare. Quanti fallimenti, quante chiusure. La stessa qualità della vita di tante persone sembra essere stata ribaltata, pregiudicata. E in molti casi, chi ha perso il lavoro, non sa più come mantenere la propria famiglia, più che conservare il livello precedente di tenore di vita. Il giovane competente, magari anche bi-laureato, va disperatamente in cerca di una qualificata occupazione senza essere certo di trovarla in tempi ragionevoli. Giovani senza coltivabili progetti di vita, in preda alle frustrazioni. La stessa dottrina sociale della Chiesa è sembrata volersene, in qualche modo, occupare ultimamente. Ma in questo sconvolgente scenario c’è ancora chi, dimentico del principio di realtà e dimostrando una coscienza civile e democratica assolutamente precaria, dopo aver tralasciato per anni una qualche apprezzabile politica di redistribuzione delle risorse da catturare per mezzo di un’equa politica fiscale per non toccare le potenti lobby degli amici, prova ancora ad imbonire gli italiani, tra gli scandali della nuova tangentopoli, con visioni assurdamente ottimistiche. © – Sergio Andreatta