Racconto di Sergio Andreatta
Tanto tanto tempo fa a Milano, quando ancora non si discuteva del riscaldamento del Pianeta per l’effetto serra, le gazzette parlarono di un inverno molto rigido, ben più di quello che accade oggi normalmente, qui da noi, in Agro Pontino. La neve che scendeva soffice come piume gelate dal cielo andò ben presto ad ammantare tutta la città, Piazza Duomo, le strade, i parchi.
Brrr, che freddo cane! Brr!!! Non c’era l’attuale sistema tecnologico di riscaldamento nelle case e il Servizio Meteorologico dell’Aeronautica non aveva ancora cominciato ad emettere in tv i suoi bollettini preparando la gente con le sue previsioni. O meglio non c’era proprio ancora un’idea di Servizio di quel tipo e l’unica… aeronautica conosciuta era quella, silenziosa e non inquinante, dei volatili…
Sulle rive dei navigli gli artigiani meneghini facevano sibilare dalle loro sciarpe avvolgenti poche parole di ricordi su un’antica leggenda che si diceva ancora sopravvivere… Pare, quindi, che ancora in quei giorni, sotto la grondaia di un palazzo in Porta Nuova, fosse ritornato quel mitico nido. Parliamo di una famigliola di merli che indossava a divisa piume candide come la vergine neve.
(Ma io posso giurare che il colore bianco della merla non è solo una leggenda e non mi sorprende più di tanto perché… una così “rara avis” noi l’abbiamo avuta proprio, per un po’ di tempo, nel nostro parco scolastico della C.Goldoni di Latina).
Dunque in quel provvidenziale nido c’era una mamma merla, un papà merlo e tre piccoli uccellini, nati dopo l’estate.
Ma, come succede agli uomini, anche questa famigliola soffriva molto i rigori del pungente inverno e stentava a trovare qualche bacca e qualche briciola di pane per sfamarsi. Semi e briciole che cadevano in terra dalle tovaglie scrollate dai balconi delle cucine venivano subito ricoperti dalla neve che scendeva abbondante dal cielo. I merlottini da sotto il petto della mamma allungavano il collo e aprivano il loro becco famelico.
Il papà merlo, che sentiva addosso tutta la sua responsabilità di capofamiglia, si dava parecchio da fare ma non bastava e così dopo qualche giorno, toccando a lui trovare una soluzione, prese la sua decisione e disse alla moglie:
“Nulla! Qui non c’è proprio più nulla da mangiare e, se continua così, presto moriremo tutti di fame!”
“E di freddo!” aggiunse lei, ormai esausta, come un’inesorabile santippe.
“Già, ma avrei un’idea, però…”.
Continuava a nevicare senza tregua e così la merla, per proteggere meglio i merlottini già mezzointirizziti dal freddo, pensò bene di spostare il suo nido sul tetto di palazzo Biolcani, ora Morassi, dove fumava continuamente un bel comignolo. Quella vicinanza avrebbe distribuito, pensò, un po’ di tepore.
Gli uccellini si sistemarono stando tutto il giorno rintanati nel nido, tenendosi fra le alucce e scaldandosi tra loro anche grazie al fumo che usciva.
Tre giorni si dice, ma non ne siamo certi, sia durato questo rigore.
E tre giorni stette via il merlo-papà volando per le povere aie della Brianza fino alla sfarzosa Villa S.Martin di Arcore dove si coltivava un plastico e resistente mais-ogm e, qui, finalmente potè trovare in abbondanza quel cibo che cercava.
Così potè rifocillarsi e, fatto il carico, prese a tornare indietro. Vola che ti vola si trovò vicino al suo nido ma…, cosa era successo mai?, quasi stentò a riconoscere i suoi familiari diventati tutti grigioneri nel frattempo.
Incredulo sobbalzò, scosse il capo un paio di volte ma poi, felice lo stesso, corse a riabbracciarli con le sue ali.
Sì, erano sempre loro, i suoi cari… tinti dal nerofumo del caldo camino…
Intanto era arrivato il primo dì di febbraio e con esso comparve un pallido sole e tutti, proprio tutti gli uccelli dei vari casati, poterono affacciarsi dal loro nido invernale. La stagione divenne, all’improvviso, meno rigida e i merli cominciarono a trovare ogni giorno di più il cibo che gli serviva per crescere fino ad arrivare alla primavera.
Ma, ahimè senza accorgersene, a contatto con la fuliggine anche il capofamiglia si era scurito il suo vestito come i familiari…
Dimenticandosi di questo preciso fatto, dopo un pò la gente cominciò a dire che i merli erano nati tutti neri e che i merli bianchi fossero solo un’eccezione da favola…come quella della Goldoni appunto, ma una favola in piume e ossa che, pure, ho mostrato ai bambini e a mons. Gianni Paoletto del vicino Sacro Cuore. No, non era un’araba fenice e lui, per essere anche uomo di chiesa, non potrà mai negare di averla vista…
Gli ultimi tre giorni di gennaio di solito sono sempre i più freddi e a seguito di questo fatto da allora furono detti i “trii dì de la merla”, i tre giorni della merla, per ricordare la singolare avventura di questa famigliola di volatili meneghini.
Le leggende paesane della padana fanno coincidere per la maggior parte i “giorni della merla” con gli ultimi tre giorni di gennaio.
Ma nella bassa, a cavallo fra Brescia, Cremona, Mantova e Parma, esiste anche un’altra versione della leggenda che indica, per i tre giorni della merla, gli ultimi due di gennaio e il primo di febbraio.
Da piccolo ho sentito questa leggenda, con qualche variante, anche a casa mia e in casa mia si raccontavano solo i detti popolari e le leggende di Bassano del Grappa e dintorni, fino alla Valsugana, ma siccome mio fratello si chiama Ambrogio (“Ambrosio”, ” ‘Nbrosio”), come mio nonno e altri avi dell’albero a intervalli regolari di una generazione, non è detto che non l’abbiano importata nelle parti del Brenta e della Pedemontana del Grappa proprio loro al ritorno da un viaggio commerciale a Milan.
Coi loro abiti scuri da cerimonieri, le code alzate, i becchi dorati, gli occhi che sembrano fissi e, invece, non lo sono, sono pronti a uscire tra qualche giorno ai primi tepori.
Un paio di settimane ancora e i merli cominceranno a cantare i loro sentimenti con tutto il flauto della loro voce amplificata dall’amore. © – Sergio Andreatta