In Ciociaria sui luoghi di papa Celestino V.
© di Sergio Andreatta – www.andreatta.it
20 settembre 2010, 140° anniversario della Breccia di Porta Pia. Al mattino ci muoviamo da Latina in direzione dell’itinerario celestiniano programmato nell’alta Ciociaria, nelle terre di Bonifacio VIII. Insieme a me e alla prof.ssa Rosamaria Pirri c’è un francescano che dal 1999 vive da eremita il suo “elogio della vita solitaria”* sulla Morgia Quadra molisana. Il frate contemplativo stringerà per tutto il giorno tra le sue mani il libro delle Lodi e, come una reliquia accarezzata, una copia del libro la “Vita C” di Celestino V. La “Vita C” scritta da due suoi discepoli coevi, Bartolomeo da Trasacco già testimone nel Processo di canonizzazione del 1313 e Tommaso da Sulmona, è l’opera che giaceva dimenticata in una polverosa biblioteca parigina sino al 2002 allorchè è stata ritrovata da Stefania Di Carlo dell’Università de L’Aquila (poi tradotta da Ilio Di Iorio). L’opera porta la prefazione di mons. Giovanni D’Ercole, orionino vescovo ausiliare de L’Aquila e mio compagno di studi per cinque anni a Grotte di Castro e a Roma. Oggi ricorre, quindi, la data della dissoluzione di 14 secoli di potere temporale dei Papi (senza la quale l’Italia non avrebbe mai avuto Roma come sua degna capitale) i cui prodromi si possono storicamente rintracciare, come antitesi al desiderio di strapotere cesaristico di Bonifacio VIII, già nell’azione politica di Filippo IV il Bello re di Francia. Egli fu un laico osteggiatore della convinta idea cesaro-papista di Bonifacio VIII sul primato assoluto e imponibile della Chiesa (papa come re dei re) nella politica estera europea dell’epoca. Due figure epocali opposte, quella di Celestino V e di Bonifacio VIII, che videro i loro passi intrecciarsi nelle opere e nei giorni senza volerlo. Tanto umile, disincantato e forse incompetente nel governo della Chiesa-impero (fino a correre il rischio di farsi strumentalizzare dal D’Angiò) il primo quanto energico, giurista smaliziato e politico rotto agli affari, perfino negli interessi esclusivi da assicurare al proprio casato dei Caetani e nepotista pervicace (basti pensare solo agli 8 tra parenti e affini nominati cardinali durante i 5 concistori) il secondo. Finalmente liberatosi dell’eremita-papa-eremita di cui era stato segretario e suggeritore non soltanto per le questioni politiche e giuridico-canoniche ma fin nelle modalità della confezionata sua rinuncia (“… colui che fece per viltade il gran rifiuto” per Dante – Inferno, III, 58-60 – non sembrerebbe però identificabile con lui per Natalino Sapegno), Bonifacio poteva agire ormai nelle vesti di liquidatore dell’impronta celestiniana. Così nel 1297 affidava all’inquisitore francescano Matteo da Chieti il compito di stanare e punire alcuni strani soggetti che si muovevano tanto poveramente nel Centro-Italia non pochi vivendo concentrati nel Molise (“tanquam in cubilibus strutiorum in vestimentis ovinis receptantes”) vestiti di pelle ovina in luoghi simili alle stallucce per gli struzzi.
Padre Luciano Proietti, che opera attualmente nell’eremo di S.Egidio sopra Frosolone, mi ha acceso questa lampadina. Ecco perchè lo accompagno oggi con interesse in questo viaggio. Egli mi ricorda che il movimento spiritualista dei “fraticelli dell’opinione”, predicatori della povertà assoluta, era attivo nel territorio molisano tra Agnone, Chiauci, Frosolone e Civitanova. Spiritualisti alla ricerca del misticismo si radunavano in conventi molti dei quali intitolati a S. Onofrio. Ai Poveri Eremiti Morronesi, detti poi Fratelli dello Spirito Santo o anche celestini, pareva di sentirsi più sicuri nel dimorare in un territorio (Isernia e dintorni) che era quello natio del papa alle cui orme si ispiravano, qui era la sua casa e più forte si percepiva qui un alone di santa eremitica spiritualità. E poi quei ruderi, tante volte osservati, di un omonimo antico convento che sovrastano ancora oggi il restaurato eremo di S. Egidio sul monte Gonfalone. Il diffuso movimento religioso si ispirava un po’ alla visione profetica di Gioacchino da Fiore e soprattutto allo spirito di povertà di Pietro (Angeleri) del Morrone. Era stato autorizzato dal papa e si atteneva ad una Regola costitutiva sotto la guida di Pietro da Macerata, “fra Liberato”. Ma Bonifacio VIII, forse per esigenze di ricercata discontinuità e di antagonismo con il predecessore, pensò bene di ordinarne lo scioglimento. Alcuni fraticelli tentarono, allora, per spirito di sopravvivenza di resistere alle procurate avversità. Ma nel 1304, dopo varie e altalenanti vicissitudini, Carlo d’Angiò, detto lo Zoppo per la sua menomazione, per non rendersi più inviso al nuovo papa coll’ospitare all’interno del Regno di Napoli questi umili da alcuni considerati ora in odore di eresia, spinse perché fosse nominato un inquisitore apostolico, con l’idea di venirne definitivamente a capo. E venne così nominato un fanatico domenicano Tommaso d’Aversa, un personaggio già interdetto per sette anni dalla predicazione e dall’insegnamento per aver negato l’esistenza delle stimmate in S. Francesco ma poi improvvisamente riabilitato per gli uffici dello stesso re Carlo. Ora con l’inganno di una lettera questo Tommaso d’Aversa convocava gli umili fraticelli per quello che annunciava essere il definitivo riconoscimento della loro fedeltà alla religione cattolica. Si raccolsero così gioiosamente a Frosolone 42 fraticelli e arrivò l’inquisitore. L’azione repressiva di Tommaso fu fulminea e la condanna esemplare. Tutti furono subito imprigionati, insieme ad una ventina di paesani accusati di averli protetti, ospitati e sfamati. Gli imprigionati vennero sveltamente tradotti a Napoli, a Castel Capuano, e poi trasferiti a Trivento, rinchiusi in una cisterna e sottoposti alle torture più atroci. Sospesi alle travi con le mani legate dietro le spalle e pesi attaccati ai piedi, i poveretti venivano immersi nell’acqua gelida mentre le gambe venivano raschiate con punte affilate. Tali torture proseguirono, ancora più severe, a Roccamandolfi da Pentecoste a Natale, per cinque mesi. Alla fine fu necessario un atto dello stesso Re di Napoli per interrompere tanta disumana crudeltà ma i “fraticelli dell’opinione” furono lo stesso costretti a passare, nudi e legati, per le strade di Napoli per essere flagellati, segnati sul corpo con una croce e, infine, espulsi per sempre dal Regno.
Ma, mentre tutto questo accadeva, il più che zelante inquisitore del tempo Tommaso d’Aversa venne all’improvviso colpito da una grave infermità che in qualche modo egli considerò come una sorta di contrappasso punitivo per i suoi eccessi repressivi e crudeli. Così, colto da vivo rimorso, chiese all’autorità religiosa che i pochi fraticelli sopravvissuti (pauculi illi fratres qui superfuerant) venissero reintegrati nei possessi loro di S. Onofrio e venisse loro restituito il denaro sottratto. Ormai era troppo tardi. Questa terribile storia di sopraffazione di un pensiero autonomo e di una spiritualità forte nella povertà, i poverelli fiaccati e costretti ad estinguersi, aleggerà foscamente su di me in tutta questa nostra giornata di itinerario celestiniano.
Dal pontino arriviamo in auto nella “Città dei Papi”, ad Anagni. Entriamo nella Cattedrale romanico-gotica di S.Maria la cui costruzione (1065 – 1104) una lapide latina fa risalire all’opera del vescovo Pietro da Salerno (”… Costruì questa chiesa con grandissimi sforzi il vescovo Pietro. Lo generò e lo diede a noi la nobile terra di Salerno…” trad.). Cattedrale maestosa, il pavimento (1227 – 1231) è una pregevole opera artistica cosmatesca ben conservata e messa in evidenza da sedie in plexiglas che ne valorizzano il disegno. In questa chiesa, sede di importanti fatti storici in quanto sede pontificia estiva, officiarono ben quattro papi (Innocenzo III – Lotario Conti, Gregorio IX – Ugolino Conti, Alessandro IV – Rainaldo Conti e Bonifacio VIII (1294 – 1303) – Benedetto Caetani). Qui fu sottoscritto in una trattativa tra Papato e Comuni lombardi il “pactum anagninum” (I nel 1159 – II nel 1160) che riconobbe per la prima volta la Lega Lombarda (lo sapesse Umberto Bossi verrebbe qui e non a Pontida per la liturgia annuale del solenne giuramento), qui furono canonizzati alcuni santi di prima grandezza per la Chiesa cattolica da S. Bernardo da Chiaravalle a S. Edoardo d’Inghilterra, a S. Pietro eremita vescovo di Trevi la cui storia avvinghia particolarmente padre Luciano, a S. Chiara d’Assisi cui è intestata anche la mia parrocchia di Latina e a cui sono devoto. Guardo il trono episcopale di marmo del Vassalletto (1263) e, con un ritorno al passato, mi rappresento l’imponente Bonifacio VIII lì seduto nella compiaciuta pienezza del suo imperio, davanti gli sono prostrati cardinali, vescovi, podestà, capitani del popolo e gran parte della sua animata concittadinanza anagnina tra cui primeggiano per sfoggio di status sociale e per ricchezza di abbigliamento e per ori i suoi stessi familiari, i Caetani che all’interno della cattedrale hanno pure la loro cappella a custodia delle spoglie e a ravvivo della memoria dei loro avi. La facies del papa che riesco ad immaginare è quella di un papa autoritario e un po’ protervo, amante del culto della personalità come già si intravede nella statua di marmo che vigila dall’alto della fiancata della cattedrale su una Piazza Innocenzo III bellissima nelle sue prospettive architettoniche medioevali. Questa sua caratteristica temperamentale si leggerà forse meglio sulla statua funebre di Arnolfo di Cambio di cui a Palazzo se ne mostra il calco. Ma è la Cripta che concentra tutta la nostra più spiccata attenzione col suo intreccio di archi romanici, con l’originale pavimento cosmatesco, con gli affreschi (detti anche la “bibbia dei poveri”) opera di monaci benedettini che raccontano una vicenda cosmica a gloria dell’uomo che osserva la legge. Ah, quale e quanta attualità politica in questo trionfo pittorico, quanto tributo a chi rispetta la legge, quale che sia, civile o religiosa! Qui sotto riposano le spoglie dei santi S. Magno, SS. Aurelia e Neomisia, S. Secondina, S. Oliva (anche patrona di Cori in provincia di Latina), S. Sebastiano, S. Cesareo e di altri martiri. Su queste reliquie poterono raccogliersi e pregare in tanti, sovrani e popolani, pellegrini di ritorno dalla Terra Santa, laici e religiosi tra cui più volte lo stesso Pietro Angeleri del Morrone e naturalmente Benedetto Gautani da Alagna che qui era nato e cresciuto secondo la Cronica di Giovanni Villani. L’eremita francescano che mi accompagna, pur tentato a fuorviarsi dal suo vivo interesse per la cultura storica e artistica, non tralascia di raccogliersi per la recita e il canto delle Lodi. Tornerà in lui di continuo nell’arco della giornata il sopravvento della sua profonda spiritualità per cui mi ha chiesto di condurlo in questi sacri luoghi. Ci spostiamo ora nel Palazzo di famiglia di Bonifacio VIII. Signori incontrastati di questa regione (Campagna e Marittima e parte della Terra di Lavoro), i duchi Caetani dominavano fino al Tirreno mantenendo vari castelli (tra cui quello strategico di Fumone e la fortezza di Sermoneta) e rocche a presidio del territorio e possedimenti accumulati e terre sterminate. Catturati dalla storia entriamo nel Palazzo acquistato già nel 1295 da Bonifacio dalla nobile famiglia anagnina dei Conti da cui erano provenuti ben tre papi. La storia, o forse più la leggenda, vuole che in una di quelle sale affrescate con motivi floreali e faunistici ed esattamente nella Sala delle Scacchiere sia avvenuto il famoso episodio de “lo schiaffo di Anagni”. E scrive Dante nella Divina Commedia (XX Canto del Purgatorio): “… Veggio in Alagna intrar lo fiordaliso / e nel Vicario suo Cristo esser catto /…” Tale schiaffo, forse più oltraggio morale che fisico perché diretto a incrinarne l’autorità assoluta (e la storia sul punto non ha saputo chiarire definitivamente), sarebbe stato inferto da Giacomo Sciarra (= attaccabrighe) Colonna, più che dall’inviato del re di Francia Filippo il Bello Guglielmo di Nogaret. I due con circa mille uomini di scorta, aiutati da alcuni traditori eminenti di Anagni, penetrarono nella notte tra il 6 e il 7 settembre 1303 nella città ernica e nel palazzo papale con lo scopo di impedire l’affissione da prassi sulle porte della cattedrale di Anagni della bolla di scomunica del re francese che sarebbe dovuta avvenire la mattina dell’8. Motivi economici e teocratici facevano da sfondo e scenario politico al duello in atto da anni tra i due attori protagonisti della storia dell’epoca. Filippo IV per esigenze statali di erario era determinato a tassare il clero, i suoi latifondi e i suoi immani beni sul suolo francese ma il papa laziale, forte delle sue prerogative, gli si opponeva energicamente richiamandolo con tutta una lunga serie di bolle (Ausculta fili, 1301) fino all’ultima (Unam Sanctam, 1302) che sui rapporti tra Chiesa e Stati andava a sancire l’indiscutibile primazia della prima. Ma un indomito Filippo non si voleva piegare, rimettere e sottomettere ad essa per cui era scontato vederlo presto scomunicato con la conseguenza che chiunque sarebbe stato implicitamente autorizzato a detronizzarlo e a ucciderlo. Come ancora oggi può accadere, però nel mondo islamico, per la fatwua di un imàn. Quanto ci fosse di evangelico in tutto questo, pur nel contesto dei tempi e con le attenuanti che si volessero introdurre, mi è ancora oggi molto oscuro. Solo faide per il potere tra potenti consorterie familiari romane. Comunque Filippo, forte dell’appoggio di molti cardinali e vescovi soprattutto ma non solo francesi, aveva intentato un processo contro il papa facendolo accusare delle più gravi nefandezze sostenibili (eresia, magia, sodomia, simonia,…) e giungendo a chiedere l’invalidazione o nullità dell’elezione. Bisognava però, per un atto giuridico perfetto e incontestabile da altri sovrani, che il papa fosse tradotto in Francia e che fosse ammesso alla partecipazione, in qualche modo, allo stesso processo. Il primo ad irrompere nella stanza al piano superiore del Palazzo di famiglia sarebbe stato proprio Sciarra Colonna (sembra infatti che un impellente bisogno fisiologico avesse trattenuto all’ultimo minuto il De Nogaret) che, a maturar vendetta, avrebbe così inferto l’oltraggio a nome di tutta la famiglia Colonna che aveva dovuto subire sei anni prima l’interdetto, la scomunica e la confisca dei beni di due suoi cardinali (Giacomo e Pietro) per aver osato mettere in dubbio (Manifesto di Lunghezza, 1297) la legittimità dell’elezione papale e per la successiva distruzione della “patria” Palestrina. Sciarra covava anche un odio personale contro i Caetani in quanto una nipote di Benedetto con cui era promesso in matrimonio lo aveva piantato non appena lo zio cardinale era salito al soglio pontificio sembrandole ora poca cosa lo status dello Sciarra. “Mole sua stat“, ora l’oscurato motto di famiglia era diventato per Sciarra un tarlo, un’ossessione, una sostenibile causa di rivalsa. Ma anche qui, come si vede, sono vari gli intrecci, politici, giuridici, di contese e primazie di casato ed anche emotivi che vanno a confondere le fil rouge di una questione torbida e per niente lineare. Liberato di lì a tre giorni da una sommossa popolare e portato sotto scorta a Roma il papa non si sarebbe più ripreso dal patimento di questa umiliazione e sarebbe morto a distanza di pochi giorni l’11 ottobre del 1303. Una storia tanto tumultuosa quella di quegli anni che porterà in seguito (1304) alla scomunica della città di Anagni da parte del successore al soglio Benedetto XI (il trevigiano Niccolò Boccassini unico cardinale ad esser stato testimone dello “schiaffo” a sua volta avvelenato dopo questa bolla di scomunica con un piatto di fichi) ma che ancor prima aveva portato Bonifacio VIII, a seppellire vivo per dieci mesi in una fredda segreta della Rocca di Fumone il suo predecessore Celestino V. Qui era stato già sepolto vivo in precedenza un antipapa e, da morto, sotterrato a cinque metri di profondità perché non fosse più possibile rinvenirne i resti. Da dire, nella convulsa teoria di papi e antipapi, che risultò spesso difficile poter distinguere sempre ortodossamente e definire storicamente con metodo e giustezza canonica a chi veramente si dovesse attribuire la legittimità di quel prefisso di anti-. Molti secoli dopo, poco più di un secolo fa, in questo stesso tenebroso castello sarebbe stato avvelenato col cianuro dalle sette sorelle maggiori l’unico erede maschio della nobile famiglia Longhi – Caetani. Era un tenero bambino di poco più di tre anni e il suo corpicino imbalsamato si mostra ora a noi in uno straripamento di emozioni dentro una teca illuminata. E non possiamo non dirci folgorati da questa crudeltà subita, da questo ingiusto destino, da questo filo precocemente tagliato dalla Parca Atropo. E chissà quanti orribili fotogrammi e quanti altri fantasmi si aggirano ancora nella ventosa notte di questo fosco maniero pur così strategicamente utile alla difesa di Roma. Chissà?… “Quando Fumone fuma la terra trema” diceva così il proverbio popolare nel senso che i segnali di fumo che partivano dall’alto della torre gentilizia, abbattuta dai neo-proprietari Longhi nel 1600 per far posto al giardino pensile più alto d’Europa, segnalavano alle guardie delle città pontificie in continuo avvistamento l’avvicinarsi degli eserciti nemici. Le mura potevano essere così rinforzate e armate per tempo e le città non essere colte alla sprovvista. Ma non c’è commozione più grande di quella che si prova nell’addentrarsi nel costrittivo cunicolo-prigione dove, dopo dieci mesi di sofferenze, è spirato tra le sofferenze Celestino V. Stretto, freddo, buio. Dietro questo atto di disumana crudeltà commesso da Bonifacio VIII, che prima aveva suggestionato Celestino V allora a Napoli, persino servendosi di un marchingegno telefonico per parlargli nella notte attraverso il camino della stanza con cui gli faceva pervenire la voce condizionante dell’“angelo del Signore”, poi lo aveva indotto alle dimissioni e all’abdicazione-rinuncia (e non rifiuto per il diritto canonico), c’erano molti interessi concreti e inconfessabili da difendere, prima ancora che il rischio di uno scisma interno alla Chiesa. Ma “l’anima umana è come un abisso che attira Dio, e Dio vi si getta dentro” come scrisse (nel Diario) Julien Green… Ci raccogliamo in silenzio e in preghiera sul luogo dove Celstino V, ora proclamato patrono della Regione Molise, tra tanti stenti e supplizi è spirato. Padre Luciano Proietti è misticamente assorto sopra il piccolo altare costruito in occasione della visita di Paolo VI nel 1966, io sono sopra la soglia della miserevole gattabuia dove una croce di luce vividissima annunciò ai due frati celestini che il papa imprigionato aveva esalato la sua anima (19 maggio 1296). “L’angelica farfalla” di Dante (Purgatorio, X,125) era volata via. Qui ora il punto e il momento culminanti del nostro tour odierno. Il cadavere ingombrante fu traslato nottetempo, nascosto in un carro di fieno come quello di un eretico, di un ladro o di un appestato, fino al monastero di S.Antonio abate a Colle del Fico, 4 km. fuori dalle mura di Ferentino. Eletto papa, nel conclave di Perugina (1294) tra lo stupore generale, colui che da giovane, appena ordinato sacerdote a Roma, era stato subito attratto sulle montagne dell’Abruzzo dalla vita eremitica di Flaviano da Fossanova (un beato nostro conterraneo fino ad ora totalmente sconosciuto), da pontefice si era trovato di fronte ad interessi politici ed economici che gli fecero comprendere subito quanto egli fosse agnello in mezzo ai lupi e aveva così rinunciato. Celestino V, che anche da morto in qualche modo poteva entrare nelle contese degli altri, fu canonizzato da Clemente V nel 1313 ad Avignone dove nel frattempo si era trasferita la corte papale (invito ad approfondire il concetto giuridico di sede-vacantismo). Proclamato santo dopo appena diciassette anni dalla sua morte. Era stato lo stesso Bonifacio VIII, forse in preda a postumi sensi di colpa o forse per allontanarli da sé agli occhi giudicanti del popolo cristiano, che aveva iniziato la sua causa di beatificazione. Bonifacio VIII nei suoi chiaroscuri (per la conoscenza più completa occorre necessariamente affidarsi ai percorsi della storiografia e della bibliografia esistente) riposa nei sotterranei della Basilica vaticana. San Pietro Celestino il cui corpo, tranne il cuore incorrotto conservato ancora oggi a Ferentino dalle suore clarisse, è ritornato (1327) a L’Aquila (nella sua S. Maria di Collemaggio o della perdonanza) dove era stato proclamato e incoronato papa e viene festeggiato dalla Chiesa universale il 19 maggio, suo dies natalis, giorno del trionfo in paradiso.
“Potentia de lu Patre, conforta me
Sapientia de lu Filiu, ensenia me.
Gratia de lu Spiritu Sanctu, allumina me.
Damme a ccognoscere te a mme,
K’io te poça amare et temere
Et poça spreçare et tenere me vile
E in reu mortale non poça cadire
E la vita eterna non poça perdire”. Amen.
Uniti nello spirito della pace e del bene col fraticello orante.
© – Sergio Andreatta
(Anagni, Fumone, Ferentino, 20.09.2010) riproduzione riservata.
* Padre Luciano Proietti, Elogio della Vita solitaria (Vita di sant’Egidio), Effatà Editrice, Torino, 2008, Introduzione di Anna Maria Cànopi OSB, copertina e illustrazioni di Giorgia Eloisa Andreatta. Dal 1999 conduce vita eremitica nel cuore dell’appennino molisano “dove accoglie pellegrini che vogliono fare esperienza di preghiera”. Da Latina riceve e orienta spitualmente, ormai da anni, un nutrito movimento di persone “Camminoinspes“ della parrocchia S. Chiara che si è anche esteso a quelle di S. Benedetto di Borgo Piave e di S. Pio X di Borgo Isonzo.
Ringraziamo don Angelo Conti, in fotografia nell’articolo, parroco di S. Antonio abate di Ferentino, per le sue illuminanti spiegazioni storiche sull’ultima vicenda celestiniana e per la concessa visita all’appena restaurato monastero.