Latina. Tra specchi e ombre il dramma della disoccupazione per decine di migliaia di lavoratori. Persi nel 2010 oltre 10.000 posti di lavoro.
Occupazione in crisi: la dialettica si sviluppa nel 2010 tra le spietate leggi di un’economia sempre più globalizzata e un’etica del lavoro che tenta di non perdere definitivamente la centralità dell’uomo nella questione. Non è necessario immedesimarsi nella parte di chi ogni giorno perde il posto (10.000 posti persi solo nel 2010) o inventarsi necessariamente sociologi per capire che perdere il lavoro rappresenta per una persona davvero un trauma. Lascio da parte tante impotenti analisi e considerazioni sulla perdita del ruolo economico e dello status sociale. Oggi mi colpisce più di tutte la storia di un ventiseienne sardo che si è suicidato per esser rimasto di punto in bianco senza un’occupazione e anche sotto l’assillo del come fare per andare avanti con dignità. Per una ricerca di dignità il lavoro è necessario, anche se non se ne ha bisogno, contrariamente a quanto pensava André Breton che in Nadja scriveva: “Non serve a niente esser vivi, se bisogna lavorare“. Figurarsi poi se del lavoro uno ne ha un assoluto e stringente bisogno. Anche per una ricerca di democrazia il lavoro è fondamentale (art.1 della Cost. italiana). Ma è ormai comunicazione ufficiale, l’ultima in ordine di tempo: la Tacconi Sud chiude i battenti. E’ di ieri la notizia della cessazione dell’attività dello stabilimento di Latina e la conseguente apertura della procedura di Cassa integrazione. Una notizia, seppur in qualche modo attesa, non per questo meno grave e traumatica come si può evincere leggendo qui di seguito la lettera di dolore e di protesta di una lavoratrice, la Sig.ra Giancola. L’azienda, che in passato produceva indumenti da lavoro, negli ultimi anni si era andata specializzando in barriere antinquinanti. La Tacconi era l’unica impresa rimasta completamente «in rosa» della Provincia di Latina, all’interno di questa manifattura lavoravano, infatti, 31 lavoratrici. Con questa chiusura continua la spogliazione industriale del distretto pontino. In ultim’ora filtra, infatti, anche l’annuncio della chiusura della GIAL, la nota società di Borgo San Michele che produce marron glacèes e frutta candita, con pregiudizio per altri cento posti di lavoro, di cui trenta dipendenti e settanta stagionali tutte donne. Siamo in balia di un declino industriale che sembra irreversibile. Al crescente consumismo editato dai centri commerciali fa riscontro un drammatico calo della produzione industriale e artigianale e la progressiva chiusura di fabbriche per delocalizzarle altrove in base alle nuove leggi economiche sulla concorrenza globale e di negozi non inseriti nel sistema rastrella-tutto dei centri commerciali. Mentre anche i coltivatori diretti pontini protestano risentitamente da giorni davanti alla sede provinciale dell’INPS per presunto disinteresse e scarsa attenzione ai problemi della categoria dei lavoratori della terra. Stiamo diventando poveri e, allora, voglio riportare un passo (Inverno in Abruzzo, Einaudi, TO, 1962) di Natalia Ginzburg che, pur riferendosi ad un paese d’Abruzzo di cinquant’anni fa, descrive uno stato che torna a fare capolino.
“Nelle cucine il fuoco era acceso e c’erano varie specie di fuochi con ceppi di quercia, fuochi di frasche e foglie, fuochi di sterpi raccattati ad uno ad uno per via. Era facile individuare i poveri e i ricchi, guardando il fuoco acceso, meglio di quel che si potesse fare guardando le case e la gente, i vestiti e le scarpe, che in tutti su per giù erano uguali.” In questo Natale 2010 io vorrei che fossero egualmente riscaldate le case di tutti. Ma non sarà così, purtroppo. © – Sergio Andreatta – Riproduzione riservata
In Leggi tutto la lettera della Signora Rosa Giancola.
Scrive Rosa Giancola, * lavoratrice della Tacconi sud, in una lettera aperta al quotidiano Il Territorio di ieri:
“Sono trascorse poco più di 24 ore dalla notizia che l’azienda ci ha comunicato, “cessazione di attività”.
Ancora stordite da quello che in cuor nostro abbiamo sempre saputo, partecipiamo alla fiaccolata del lavoro organizzata da Cgil, Cisl e Uil. Ci ritroviamo in Piazza del Popolo in mezzo agli addobbi natalizi, noi con le fiaccole in mano, in silenzio, come alla processione del Venerdì Santo, e difficile dire cosa sia fuori luogo, se le nostre storie di “ex qualcosa” o la corsa frenetica all’ultimo regalo. Davanti a noi l’albero del lavoro con i nomi delle altre fabbriche chiuse. Una giornalista mi chiede secca «Come passerete il Natale?» non riesco a rispondere, da dove cominciare, cosa dire, potrei tagliare corto e dire che lo passerò con meno soldi, in fondo di questo sono preoccupati tutti quelli che perdono il lavoro. Ma non c’è solo questo da dire, mi guardo intorno e mi rendo conto che ci sono due Italie parallele, così come ci sono due città davanti ai miei occhi, una Latina che compra regali, forse un po’ infastidita dall’altra che sprofonda, rovinando così il “clima natalizio” al quale tutti hanno diritto potendo spendere il frutto del loro lavoro. Nessuno di noi ha comprato regali, si pensa solo ai piccoli per i quali si continua a prelevare con la carta di credito, riusciamo così a mantenere il decoro di una povertà statisticamente rilevata, senza sembrare realmente poveri.
Adesso potrei rispondere a quella domanda, “Come passerò questo Natale” lo passerò come gli altri anni con le persone alle quali voglio bene, ma con dentro la consapevolezza che la linea di confine con l’altra città festosa è più netto. Ormai quello che chiamano “solidarietà sociale” è praticato dalle organizzazioni sindacali che suppliscono eroicamente al vuoto della “responsabilità sociale dell’altro” delle istituzioni tutte, della politica e in ultima istanza dei cittadini che vivono un’altra vita in questa città. A loro chiedo il silenzio, perché credo che avendo toccato il “punto di non ritorno dell’indifferenza” il silenzio sia di per sé una forma di rispetto, chiedo il silenzio in questi giorni di festa, così abbiamo tutti modo di riflettere e di assegnare un senso al terremoto che ha investito il nostro territorio, così possiamo comprendere meglio le dimensioni della catastrofe, fermarci tutti in segno di lutto, ascoltare il silenzio dei capannoni vuoti dove restano solo le bandiere del sindacato, issate ai cancelli di questa nave economica alla deriva, ascoltare il silenzio degli spogliatoi vuoti, dove presi gli ultimi effetti personali si esce dal cancello della vita lavorativa a 40anni per diventare un “caso sociale”, una “scoria” di questa città senza futuro che festeggia il suo Natale.