25th Gen, 2006

Valentin Timofte, un anno dopo la sua morte

Nell’umiltà di come era venuto da un paese lontano, la Romania, Valentin Timofte un anno fa se n’è andato.
Era la sera di giovedì 27 gennaio 2005…

L’ “artista pittore” Timofte, come recitava l’epigrafe curata dal fratello Victor, era esule a Latina dai primi anni ’70, ospite del campo Rossi Longhi ora trasformato in campus universitario.
Qualcuno aveva notato subito il suo genio artistico e l’aveva aiutato ad inserirsi nell’ambiente pontino.
Lui aveva studiato pittura, scultura e modellaggio per tre anni all’Università di Bucarest, poi aveva preso la decisione di sfuggire al regime dittatoriale di Ceaucescu opprimente verso tutte le forme di libertà e di alterità.
Qualche anno dopo, quando lo conobbi e ne divenni subito amico, mi confessava: “Sono rimasto subito incantato dal paesaggio, dal clima più mite di quello del mio paese, affascinato dal colore blu delle montagne come si vedono dalla ferrovia che da Roma porta a Latina”.
Valentin era dotato di una grandissima sensibilità verso gli altri, di quel senso di umanità sorridente verso tutti che mascherava solo in parte la sua fragilità, la sua sottomissione alla sorte cui, sembrandogli però inutile tentativo, cercava di sottrarsi.
La sua pittura difficilmente inquadrabile solo come surreale, risentiva della formazione nel suo paese, dei cromatismi e dei bagliori aurei di certe atmosfere, di uno spirito ortodosso e non più, confuso e rotto.
Ma da Kandinskij e dagli specchi degli altri aveva saputo sottrarsi per imboccare una strada tutta sua.
Pittore del fantastico, dalle suggestioni oniriche, mi diceva: “Chi guarda deve sempre interpretare liberamente, rendersi conto di quello che vede. Meditare, se necessario”.
Nella sua ricerca di perfezionismo era capace di stare per ore a meditare su una tela, quasi in trance, avvolto dall’aureo bagliore della luce pomeridiana che nella sua dimora in Via Garibaldi a Latina, gli piombava dalle spalle.
E c’era spesso a fargli compagnia il sottofondo musicale di qualche brano scelto, spesso di autore russo o slavo.
Pittura, musica e letteratura.
Sì, anche letteratura, perchè, seppure saltuariamente, scriveva appunti e mi diceva sempre di quel libro ambientato a Venezia che gli sarebbe piaciuto scrivere.
Protagonista era una ragazza sullo sfondo di una galleria d’arte…
Negli anni aveva prodotto molto ed esposto in varie Gallerie in Italia ed era conosciuto anche all’estero.
Veniva a trovarmi frequentemente nel mio ufficio presso le varie direzioni didattiche di Sezze, Latina Scalo e al IV Circolo di Latina sperando, specie nei tempi di magra, nel mio aiuto.
Anche gli alunni erano contenti di vederlo perché presentava loro una sua pittura o, da me stimolato, s’inventava un semplice affresco da fare insieme a loro per la ludoteca.
Ma per uno strano destino si sentiva abbastanza incompreso e in una parabola calante, anche come economie ed era, così, costretto ad aprire continui atelier di pittura per tirare a campare.
Molti a Latina e dintorni, molti dilettanti tra qualche buona mano, hanno potuto frequentarlo.
Io l’avevo conosciuto per caso una sera di ritorno da Roma, quando a causa di uno sciopero improvviso dei bus, all’EUR era stato costretto chiedere l’autostop ad uno sconosciuto.
Era con lui una giovane donna, pure lei pittrice.
A Sezze, intorno agli anni ’80, abitava sulla strada per Bassiano, sopra Crocemoschitto, nella villa isolata tra i castagni di un noto personaggio politico pontino cui, per sdebitarsi, donava molti dei suoi quadri.
Mi aveva invitato in quella casa per presentarmi la sua pittura ed io, direttore didattico a Sezze, avevo voluto conoscerla invitandolo, in seguito, a qualche mostra.
L’esperienza italiana aveva causato una radicale trasformazione nella sua sensibilità pittorica e nella sua produzione.
Le linee che in patria e nella gioventù si erano mosse liberamente nello spazio della tela, ora in terra pontina erano ricondotte a forme geometriche elementari: angoli, cerchi, forme curve e sinuose, linee dove i colori erano contenuti dentro, non più macchie spontanee, ma disciplinati, quasi a riempire spazi secondo ossessioni intersecate e complessi equilibri emotivi, ma studiati con lunga attenzione.
In qualche tela mi aveva evocato ancora, Kandinskij…
Qualche volta i suoi quadri rimanevano incompleti per mesi, se non per anni, come lasciati nel buio in limbica attesa di una rinascita….
E poi quello sfondo scuro, spesso nero, era un elemento che andava ad accentuare gli effetti ottici delle sovrapposizioni e delle armonie cromatiche, mentre il celestino veniva ad assottigliarli.
Nel 1985 avevo organizzato un grande evento di pittura a Sezze e l’avevo invitato per primo ad esporre. Alcuni di quella collettiva, erano firme come Vitelli, Colorito, Brusca e altri che si sarebbero affermati come pittori di sicuro talento.
Con lui viveva una pittrice Poscia Chelm, da cui avevo pure acquistato un quadro con due cavalli divaricati: erano i loro destini che stavano per separarsi definitivamente ormai.
Le donne di Timofte erano spesso doppie donne, gemellari, bifronti, variamente illuminate, personaggi sfuggenti nei loro veli, eppure…con una forte e ambigua caratterizzazione psicologica. O forse era il suo tormento…
Sarebbe iniziato un bel rapporto di amicizia, come molti sanno, con lui che mi cercava spesso nelle varie direzioni dove mi spostavo per lavoro, lì a bussare ogni volta avesse avuto bisogno di qualcosa.
O semplicemente di parlare…
Una personalità complessa, una fantasia geniale, un’energia creativa irrompente che produceva figure talvolta così lontano dal reale da apparire come un sogno tormentato, infranto, luogo di puri simbolismi.
Davanti a una sua quadro, dove gli elementi stilistici impressi rivelano influenze orientali e occidentali insieme, elaborazioni sofisticate e ingenue miste insieme, più guardi e più sei attratto dalla suggestione onirica e da un incanto che viene da lontano.
Così io non potevo che scegliere lui, benché pittore dichiaratamente profano più che sacro, per il “Cantico delle Creature”, otto quadri (m.14 per 1,42 di altezza di pittura complessiva) in acrilico su tela per l’abside della Chiesa di S.Francesco di Borgo Bainsizza.
Dietro la vicenda francescana reinterpretata gli avevo suggerito di far scorrere la nostra vicenda pontina del pre, durante e post bonifica. E mi aveva seguito con tanta umiltà, da mettermi in imbarazzo, nelle ispezioni agli angoli a me più familiari volendo carpire ogni più utile informazione per la scenografia. “Sei tu il mio ispiratore!”, si divertiva nel prendermi così amabilmente in giro.
E, in effetti, aveva finito per dare al Santo d’Assisi le mie sembianze e ad un altro frate pelato quella del parroco, mentre altri personaggi del Borgo popolavano qua e là altre scene.
Insieme studiavamo situazioni, ambientazioni e vedute.
Così San Francesco parlava agli uccelli da un punto particolare sull’Astura e benediceva il sole e il grano dalla finestra di casa mia…
Il vescovo, mons. Domenico Pecile, quando gli portammo la tela in Curia rimase sbalordito ma anche perplesso. Non voleva che Francesco per benedire il sole nascente e il grano voltasse le spalle ai fedeli, l’iconografia post-conciliare non lo prevedeva.
Ma la resa pittorica era davvero bella ed avvincente ed io per vincere la resistenza del Vescovo proposi a Valentin di dipingere un frate con l’aureola, nuovo Francesco, di profilo a fianco del primo e di spostare la scena dal centro della sequenza dove l’avevamo prevista più a destra. Usciti fuori decidemmo che il quadro non sarebbe stato, invece, ritoccato e che l’avremmo collocato sopra la porta della sacrestia aumentandone l’effetto scenografico.
Valentin era divertito della mia risoluzione.
In altre scene la notte calava sulle corti dei nuovi poderi dell’O.N.C. dove un falò illuminava una mucca.
Il Vescovo, ad opera compiuta, aveva voluto invitare a vedere tutto il clero diocesano davanti al quale io, insieme con Timofte, avevo spiegato ogni senso e significato dell’opera.
Mentre ricordavo quell’episodio potevo leggere sulle labbra del Vescovo un tardivo ma, finalmente, convinto sorriso di approvazione…
Poi, essendo anche scultore, avevo convinto il parroco, don Quirino Iori, a fargli modellare le XIV stazioni della Via Crucis.
E da quel materiale aveva tirato fuori tutta l’espressione più drammatica di cui un artista fosse capace, le sensazioni più angosciose.
La parete di destra convergeva, alla fine, su un altro dramma “La morte di Maria Goretti” dove, nel suo occulto linguaggio mentale, l’effetto del delitto scellerato subiva una surrealistica metamorfosi e l’anima bambina volava in lieve sublimità verso una nuova dimensione.
Spesso lo chiamavo alla C.Goldoni, l’istituzione di Latina dove ancora opero, e lo promuovevo agli alunni che si facevano emotivamente coinvolgere dalla sua creatività.
Giocando con loro, bambino tra i bambini, aveva anche dipinto, e semplicemente, le pareti di una modesta ludoteca.
Era il periodo in cui gli avevo fatto fare, anche, il bozzetto per l’abside del S.Cuore nei pressi della Curia Vescovile, 400 metri di pittura che sarebbe stata la sua consacrazione artistica definitiva.
Non aveva nessuna grande pretesa economica… poi successe che il giovane prete, cui l’anziano titolare aveva demandato l’impresa che sembrava destinata a concludersi, venne improvvisamente trasferito in un piccolo borgo lontano e il suo bozzetto, finito chissà dove, disperso…
Le vigilie di Natale, molte, le aveva trascorse con la mia famiglia davanti al fuoco acceso del caminetto.
E davanti a quelle lingue scoppiettanti aveva previsto, poi puntualmente verificatosi, il tracollo del regime comunista rumeno.
Nella lunetta frontale, da me donata alla parrocchiale per il 60° del Borgo, avevamo riproposto la stilistica di un S.Francesco benedicente in rilievo.
Valentin da qualche anno aveva ritrovato il gemello Victor ed erano andati ad abitare in una piccola casa sui Lepini.
A Latina, dove molti pure lo conoscevano, lo si incontrava prima più spesso, poi gravemente ammalato sempre più raramente, dalle parti della Galleria Pennacchi, con una piccola busta della spesa tra le mani e con quel senso misterioso della solitudine che sempre lo avvolgeva… Di Timofte, oltre quel suo personalissimo segno artistico, mi piaceva quella sua indomita non sudditanza al tiranno, quella sua lotta, alla fine vincente, per le libertà…
La x edizione de “Il Maggio Sermonetano 2005” lo ha voluto ricordare con una retrospettiva nella Chiesa di San Giuseppe.
Erano presenti, artisti, personalità politiche, tanti amici.
Il catalogo apre con un mio ricordo.
A Valentin, nei momenti di depressione, piacevano tre versi di una mia poesia:
“E sotto un cielo di malinconia
muore il giorno, la vita e si disperde
nei confini del buio la speranza…”.
Ma Valentin non era solo pessimista e mi aveva scritto una volta, quasi in risposta:
“Il canto del gallo apre un nuovo giorno.
Se ci rimane tempo,
possiamo stare all’ombra di questo secolo.
Poi lascia che venga quel che deve…”.
L’arte di Valentin, che ci ha lasciato poco più che cinquantenne, vive in molti luoghi, collezioni pubbliche e private, come vivrà sempre in noi il suo indelebile ricordo.

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