Quando la montagna ci eleva al di sopra della quotidinità e il Cammino ci fa giungere in prossimità del cielo.
Questa montagna molisana che si staglia nei suoi tormenti rocciosi, grigioscura sopra lunghe distese di pascoli verdi anche a luglio, sembra elevarsi al di sopra dell’umanità e giungere in prossimità di un cielo limpido come pochi, sembra avvicinarci a Dio. E’ qui che son venuto a cercarlo anch’io da Latina negli ultimi anni. “Beato l’uomo che teme il Signore” (Sal.112, 1), questo l’incipit del Salmo, il semaforo verde che ci ha aperto all’esodo di due giorni sopra la montagna di Frosolone, all’eremo di S.Egidio. Ad accoglierci nella pace e nel bene Padre Luciano Proietti, il carismatico francescano che vive da eremita, nell’elogio della solitudine, sul Monte Gonfalone. “Entra interamente, resta solo, esci diverso” (ingredere totus, mane solus, exi alius). Entra interamente: tutto l’uomo, tutto te stesso, portati pure dietro tutti i tuoi problemi, le tue ansie, – scrive un animatore del CamminoinSPeS – i tuoi amici e anche i nemici, ma soprattutto tutta la tua storia. Resta solo: ritrovati, ascoltati ma soprattutto ascolta la voce del Maestro che ti guida dove ti ha chiamato…”.
Così l’uomo diverrebbe beato perché temendo il Signore impara ad amare. “Nella gioia di saper stare insieme, come in questa due giorni di esercizi spirituali in montagna, sorridendo con semplicità, accettando le diversità dell’altro, perché solo così si può accogliere il dono della vera comunione e costituirsi sempre più in Comunità”. Resta solo ma costituisciti in Comunità perchè: “Il mondo delle anime, nonostante la libertà e la responsabilità personale, è retto da una misteriosa solidarietà” come scrive proprio Luciano Proietti in un Dialogo dall’Eremo (n.10, pag.95). Dopo la serenatella alla Madonna e il fresco ristoro della notte, la mattina di domenica 10 luglio indosso anch’io, seppure con un pò di ritrosia e difficoltà per la taglia più piccola, la t-shirt del Gruppo che mi era stata donata la sera precedente. Stampigliata sopra porta la scritta “Omnes volunt tamquam domini serviri, sed pauci volunt Domino servire”. Questa frase fa sicuramente per me, infatti anche mia moglie – cui non porto neanche il caffè a letto – mi assilla rimproverandomi perché amo essere sempre servito. Ora sto scendendo dalle rocce della Morgia Quadra verso l’antico eremo di S. Egidio. In alto, sul tormentato orizzonte di fronte, girano lentamente le pale di una centrale eolica, gira eterodiretta dai soli fattori esterni la vita di troppe persone fatalmente sottomesse al loro destino. Entro nel piccolo rimboschimento forestale di conifere che interrompe l’effusione già scottante del sole e sosto brevemente al tavolo di pietra dove il giorno prima sul senso del tema “Beato chi teme il Signore…” si era impegnativamente interrogato il nostro Gruppo SPeS guidato dal diacono corese Claudio De Rossi. Odo salire le preci dall’antica chiesetta sottostante, sono le Laudi.
Io sono qua, nel cuore dell’alto Sannio, isolato in una breve pausa di… “deserto”. Vivere il silenzio per due giorni o per due anni, senza doverlo interrompere, questo io vorrei come quella volta da ragazzo che lo feci per un mese intero e tutti pensavano che fossi diventato improvvisamente muto. Ma era invece servito a fortificarmi. Perché mi trovo oggi in questo posto, per caso o per scelta? E perchè quell’insetto, una farfallina candida a forma di TAU, viene a posarsi sul bastone che, da compagno, prima mi aveva aiutato nella faticosa ascesa? Le scatto una decina di foto con la Nikon che tengo al collo e che spesso mi aiuta a vedere meglio ciò che di straordinario mi circonda nella natura. Candida nella sua purezza la farfallina sembra non volersi distaccare più dal mio bastone. Che ci faccio io quassù tra gente che si chiama Scacciavillani, Colaneri, Fraraccio, Zampini, Ruperto o Marinaro, seppure l’Adriatico sia ancora lontano, o… Efficace seppure non lo fosse? Che ci faccio qui io convintamente laico? Dentro di me si svolgono continue baruffe tra ragione e fede, dove la prima nutrita dai miei dubbi e da molteplici ipotesi d’incertezza sembra più spesso prevalere sugli slanci vitali della seconda. Nè mi consola una breve frase de “L’agonia del Cristianesimo” di Miguel de Unamuno: “La fede che non dubita non è fede“. Così l’anima mia destinata a “vivere la fede in compagnia del dubbio” (Carlo Maria Martini, Il Comune sentire, Rizzoli, 2011 ). Ondeggerò nella grande tempesta di pensieri, indugerò compiacente nelle nebbie ma saprò alla fine come esse risollevarmi leggero dal basso?… I nostri ragazzi intanto giocano a pallone sul campo di fieno appena tagliato, due adolescenti sono distesi al sole come lucertoloni con la pancia sopra due grosse balle. Li anima un seminarista, Matteo, anche lui ormai giunto al bivio delle sue scelte esistenziali più importanti. I miei passi scendono da soli ormai verso la chiesa dove l’ eremita Luciano col suo verbo sta già suggestionando i cinquanta pontini giunti fin qua su per gli esercizi spirituali. La farfallina-tau mi accompagna amica nel tratto volandosene via una volta entrato dal cancelletto dell’ortus conclusus. Le sue ali battenti indirizzano il mio sguardo su una pietra, anch’essa a forma di tau, cementata sulla facciata. Ingredere totus… Entro nel santuario dove il mio sguardo incrocia ora il tau di legno appeso al collo del francescano. “Ecco, Sergio! – dice questi rivolgendosi proprio a me – Ora ci dirà lui il motto…” Il motto che immagino essere quello in latino stampigliato sulla t-shirt che quelli del Cammino in SPeS mi avevano quasi obbligato ad indossare, a me come ad altri e loro stessi, per un giorno e che recita “Omnes volunt tamquam domini serviri sed pauci Domino servire”. Sul mio avevo anche notato degli errori di trascrizione latina ma rispondo subito: “Omnes-pauci,… serviri-servire”. Pensiero in forma antitetica, in contrapposizione di concetti”. Ma non riesco ancora a svuotarmi, ad accostarmi libero alla preghiera, a sgombrare la mente dall’immagine ossessionante di quel tau vivente. Non riesco a separarmi dalla vita, senza riuscire a trovare una spiegazione, quasi la si dovesse ricercare sempre, e per forza. Un altro segnale francescano dopo i tre sogni che dopo tanto tempo di intima custodia (tranne che a mia moglie) avevo appena svelato a Daniele e allo stesso eremita quasi a chieder Loro, io che pure avevo studiato il “Codice dei sogni” di Sigmund Freud, un aiuto nell’interpretazione? Perché sono un uomo che vuole sempre capire? Nel primo sogno Francesco d’Assisi mi era venuto incontro a braccia aperte e mi aveva stretto a sé. Era il periodo in cui curavo l’abbellimento artistico della Chiesa di S. Francesco di Borgo Bainsizza, ispirando con intensità il Progetto pittorico dell’abside con il “Cantico delle creature in terra pontina” realizzato da Valentin Timofte. Nel secondo mi vedevo salire nel buio di una botola, tirarmi su a forza di braccia fin sulla cima di un alto palo. Passando poi per una stretta apertura arrivavo alla fine ad un pianerottolo inondato di luce dove una figura in piedi, alta e nobile, subito riconosciuta come Padre Pio da Pietrelcina sorridendomi mi diceva:” Bravo, finalmente ce l’hai fatta!”. Che brutto periodo della mia esistenza quello! Stentavo ancora a rialzarmi da due infondate accuse giudiziarie. Indagato, ingiustamente indagato. E nel frangente non sembrava riuscire a sostenermi moralmente neanche la mia limpida e forte coscienza. Più che in un deserto, mi ero sentito nel bàratro di un pozzo. Tutto sembrava congiurare, franarmi intorno e sotto i piedi. ”Bravo, finalmente ce l’hai fatta!”. Le due inchieste sarebbero state a breve archiviate per infondatezza e – malgrado le maligne notizie di stampa – dimostrata la mia totale estraneità ai fatti. Nel terzo sogno mi vedevo in visita ad un anziano cappuccino ammalato, ospite in una casa di cura. Dopo una rampa di scale mi trovavo all’improvviso ad accedere nel corridoio centrale di una grande camerata, nel letto di fondo giaceva il canuto frate reatino che volevo salutare. Tanti frati monchi, tutti storpi, orribili a vedersi, giacevano sulle loro brande alla mia destra e alla mia sinistra e si protendevano stirandosi in tutti i modi verso di me tentando di toccarmi con la mano o con quello che gli rimaneva. Che ribrezzo! Mi scansavo per come potevo e mi allontanavo quasi inorridito per svegliarmi subito dopo come avvolto da un terribile incubo… Misericordia!… Ora questa farfallina era venuta, in questo posto dove sono evidenti i riverberi del divino, ad aggiungere un altro segnale francescano incomprensibile? Niente sembra accada per caso o sono io che perdo tempo a non voler comprendere? E’ noto che il TAU per i seguaci del Poverello, laici o religiosi che siano, rappresenta da sempre l’esteriore “sigillo” del proprio impegno, come ricordo della vittoria di Cristo sul demonio attraverso il quotidiano amore oblativo”. Un impegno di vita nella sequela del Cristo povero e crocifisso. Un segno distintivo del riconoscimento della loro appartenenza alla famiglia e alla spiritualità dell’assisate. Ma ora che cosa si vuole più da me? Io, non diversamente da Adamo o dal diavolo come sta scritto in un Liber Spiritualis del XIV sec., ancora non comprendo, Signore. Così avido di conoscere, Signore, non sarò mai esaudito? Sergio Andreatta, 10.07.2011, Eremo di S.Egidio in Frosolone –
Le due foto seguenti sono estratte dal sito di CamminoinSPeS: