E nel clou del Pastorizia in Festival, il 10 agosto, è apparsa a Picinisco la Madonna Pastora.
di Sergio Andreatta sergio.andreatta@andreatta.it
“Nel cielo abbiamo una Madre. Il cielo è aperto, il cielo ha un cuore”, molti secoli prima che papa Benedetto XVI pronunciasse queste stupende parole, il 15 agosto 2005, sembrava questo il riconoscente sentire degli erranti pastori di Picinisco quando ascendevano, e tuttora ascendono, con greggi e mandrie sui pascoli più alti dei loro monti, fin sulle cime delle Mainarde quasi a toccarlo quel limpido cielo… E poi nella meraviglia del notturno stellato… Il mestiere del pastore con quello del boscaiolo, del contadino e dell’artigiano, fino a metà del secolo scorso era il più diffuso e condiviso tra gli strati popolari di questo bel villaggetto montano dell’Appennino Centrale Abruzzese, già del Regno di Napoli fino al 1861, esattamente in provincia di Terra di Lavoro fino al 1927. A Picinisco si potevano censire oltre 60.000 capi di ovini, tra pecore e capre, e le famiglie traevano la loro principale fonte di reddito, la loro economia e anche il prestigio del loro status sociale principalmente dalla pastorizia e dal numero dei capi governati in gregge. I pastori, specie i garzoni (oggi sono per lo più stranieri: rumeni, macedoni, albanesi…), praticavano un lavoro duro, faticoso, che li portava, pur esentandosi da distanti transumanze per la ricchezza di pascoli in luogo, per lunghi periodi fuori di casa. Le principali famiglie pastorali di Picinisco (nelle dinastie dei Crolla, degli Andreucci, dei Pia, dei Pacitti, dei Perella, dei Capaldi, dei Marcantoni (-io), dei Ventre, dei Faccenda,…), alcune delle quali di chiara origine pastorale sarda (es. i Vacca,…), trasudavano di benessere mentre tra i pastori non era infrequente attestare la presenza di giovani capaci anche di apprezzate espressioni artistiche, sia musicali con zampogne e organetti sia di manipolazione del legno lavorato a punta di coltello e su modelli che talvolta ci ricordano assai da vicino forme di più antica civiltà nella produzione di oggetti di notevole valore, come le conocchie di legno o di canna per filare la lana o la canapa o la ginestra. Di regola intagliati dai giovani pastori, questi oggetti venivano offerti in dono alle ragazze del paese ed erano, allora, rocche di legno, decorate con figurine di uomo o di donna o di animali o di fiori, che serbano chiare impronte di un’arte minore tramandatasi di padre in figlio. I giovani pastori erano anche in grado di produrre cucchiai, forchette, mestoli, zoccoli e altri utensili della suppellettile casalinga e pastorale. Durante le lunghe assenze in attesa dei fidanzati le ragazze nelle loro case provvedevano, intanto, al ricamo della dote e, se capaci – promuovendo una piccola imprenditoria in proprio – cucivano e tessevano anche tappeti per altri committenti. Il senso religioso era molto sentito ed espresso, un vera koinè, un comun denominatore antropologico tipico della sociosfera, un carattere contraddistintivo senza il quale un soggetto era sottoposto al patimento di una sorta di scomunica non canonica, non erogata ma che affliggeva e permeava socialmente tutta la sua esistenza in quanto estraneo alla chiesa, alle sue affermazioni (definizioni dogmatiche), ai suoi sentimenti che erano poi di tutti. Così pochi, se non nessuno aveva la forza di opporsi alle convenzioni e di resistere, sia pure per altra convenienza, alla condivisione di quel sentire comunitario. Benestanti e capaci, maggiormente con la decadenza dell’aristocrazia economica dei notai Bartolomucci e lo strapotere di un emergente ceto borghese, di indirizzare anche le sorti politiche del paese, i pastori si erano via via dimostrati nei secoli, come pure attestano numerosi documenti, capaci di oblazioni, anche consistenti, per grazia ricevuta o per sua richiesta verso la chiesa locale sottoposta all’officio dell’abate e dei canonici di S. Maria (già attivi e riconosciuti da una bolla papale fin dai tempi antichi di papa Pasquale II novecento anni fa). Culto mariano antichissimo, dunque, perfino antecedente a quello della stessa Madonna di Canneto… Un giorno, dopo una devastazione più forte delle altre, il villaggio al fine di assicurare migliori strategie difensive alla popolazione, sarebbe stato spostato dal colle del Castello, ad ovest dietro l’abbazia, sopra il soprastante sperone roccioso, con l’edificazione di una robusta torre difensiva funzionale al controllo dei movimenti sulla Valle del Canneto (Var-romana) che mette in comunicazione il Lazio con gli Abruzzi e con l’insediamento intorno al castello del primo nuovo nucleo abitato. Ma col tempo anche l’antica Abbazia di S. Maria avrebbe perso d’importanza, trasformata in chiesa cimiteriale a seguito del decreto sull’igiene pubblica del 1809 di Gioacchino Murat che prevedeva che i cimiteri fossero posti fuori dei paesi (quindi qui non più su Via S. Croce), e di conseguenza il centro religioso principale sarebbe stato definitivamente trasferito nella più centrale chiesa collegiata, officiata dal medesimo abate, intitolata a S. Lorenzo levita.“Trionfatore degli idoli / di Cristo invitto atleta / e in terra e in ciel t’inneggiano / col popolo che canta: / Lorenzo in tutti i secoli / dei martiri sei fior. / Vanto tu sei dei popoli / e dei leviti onor. / Vanto tu sei dei popoli / e nostro protettor./ La fiamma che in te vincere / seppe cocenti ardori / della crudel graticola / avvampa i nostri cuori. / Lorenzo in tutti i secoli / dei martiri sei fior. / Vanto tu sei dei popoli / e dei leviti onor. / Vanto tu sei dei popoli / e nostro protettor…” /. Così canta ancora il popolo sotto le volte dell’antica chiesa, e canterà durante la processione che si snoda per le vie medioevali del centro storico, in occasione della festa patronale da dieci anni concomitante con l’ultimo giorno della Rassegna del Pastorizia in Festival, quando dalla mano del sindaco viene quest’anno svelata la statua di una Madonna pastora. La devozione patronale al santo diacono non ha mai intaccato e affievolito il millenario e antecedente culto alla Madre di Dio…
(Continua >)
L’apparizione della Madonna Pastora emoziona e numerose acclamazioni di meraviglia la salutano. Si tratta di un’antica statua del sec. XVIII (foto e articolo di Sergio Andreatta), recuperata nei locali della “Congrega” della chiesa matrice vera miniera di altre sorprese promesse (tra cui una Madonna del latte con bimbo che succhia al seno nudo della madre,…). Ma sorge spontanea una domanda: da dove può venire, oltre che dal contesto antropologico, questa suggestiva e resuscitata rappresentazione di Maria? La risposta ci potrebbe venire da una lettera del 2004 del ministro generale dei cappuccini Padre John Carriveau, scritta al termine dell’anno dedicato alla Divina Pastora. Egli ci ricorda come nel 1703 il padre Isidoro da Siviglia ebbe una visione di Maria come madre del Buon Pastore. Da quella volta si diffuse tale devozione e insieme la caratteristica immagine della Divina Pastora prima in Spagna e in Portogallo, poi nelle Americhe. Nel 1932 i cappuccini dichiaravano la Madre del Buon Pastore patrona di tutte le loro missioni. Il culto si diffuse, più modestamente, anche in Italia e quindi, innestandosi naturalmente nell’ambiente, approda a Picinisco per donazione dei pastori. La statua rappresenta una bellissima madonna, bellissima e florida donna del popolo, immaginiamo delle Fontitune, che fiera nel suo capo eretto sorregge il suo delizioso bimbetto nudo dalle guance vermiglie che a sua volta accarezza tra le sue mani una pecorella: la Madonna Pastora, appunto, ritornata alla luce dopo così tanto inspiegabile oblio per opera e volontà dell’abate don Antonio Molle, parroco di Picinisco e Settefrati. Nel vivo apprezzamento culturale per la riscoperta tradizione, sia pure immaginabile ancora una volta come invenzione di un devoto momento, e con l’applauso del popolo dei fedeli e non. Un’immagine che trasmette un’iniezione di fede o comunque un senso pacato di devozione popolare, allontanandosi dalla drammaticità tipica di altre opere pur presenti sotto le tre navate della chiesa come la statua dell’Addolorata. Con la rappresentazione iconografica offerta, piuttosto idealizzata malgrado l’insolita raffigurazione dell’introduzione dell’agnello, ha voluto l’artista costruire e dare dimostrazione di una grande adesione e partecipazione al culto mariano del popolo piciniscano di tre secoli fa. Ma ancora oggi la statua mantiene tutta la sua freschezza nell’efficacia espressiva dei tratti del volto tipica dei tempi in cui dominava la teocrazia, il timor di Dio (“Avverti che Dio ti vede” sta inciso su alcune lapidi sparse nei vicoli e in una fontana di sorgente, Fonte Scopella, fuori del paese) e la società nell’establishment dei suoi valori metafisici non era ancora corrosa dalle insinuazioni del materialismo, del secolarismo e dell’odierno consumismo che, nella caduta o nell’avanzare dei tempi a seconda delle personali e ispirative visioni, impregnano oggi di complessità e precarietà le condizioni delle nostre quotidiane esistenze. © – Sergio Andreatta, Riproduzione riservata, 2011.