Sergio Andreatta. Troppi somari a scuola.
Alla ricerca di una prospettiva migliore l’idea semplice di una nuova teoria della docenza.
600. “Se questa è Scuola” scrive su Scuola Italiana Moderna (12/2012) il mio amico Italo Fiorin, mutuando il titolo da “Se questo è un uomo” di Primo Levi, per denunciare a causa della crisi economica in corso lo sgretolamento, nella scuola primaria, di un “modello organizzativo dotato di senso” anche per il declino della conduzione didattica partecipata e il ripudio di un minimo di specializzazione dei docenti. Questo scenario rappresenterebbe una grave perdita di autorevolezza culturale per la scuola. E poco vale, quindi, che nella “Voglia di un paese migliore”* (La Repubblica, 09/01/2012) gli Italiani, tra le istituzioni, continuino a dar fiducia alla scuola per il 55,7% perchè, contradditoriamente con questo largo consenso che sa più di mera aspettativa in un panorama di perduti valori, gli insegnanti vengono criticati giacchè “inculcano principi contrari a quelli dei genitori”.
In una società complessa, come la contemporanea, che mette in crisi il concetto stesso di autorità educativa c’è abbondante materia di riflessione sull’autorità esercitabile da un docente per contrastare, depotenziare ed emendare in funzione di una valutazione formativa alcuni comportamenti ritenuti esecrabili da parte di alcuni studenti, soprattutto della scuola secondaria. Ma guai a lui se prova a inculcare “principi contrari a quelli dei genitori”. Pedagogicamente parlando si dovrebbe meglio dibattere sui valori condivisi in sintonia con i principi della Costituzione della Repubblica Italiana e affermare o riaffermare il concetto di autorevolezza del docente sensibilizzando gli stessi genitori che, se potessero, vorrebbero poter meglio contare, chissà, sull’entusiasta professor John Keating splendido protagonista del film “L’attimo fuggente”.
Ma siamo nella pura idealità di quello che si vorrebbe, intanto perché non tutti i docenti hanno la stessa predisposizione ideale verso i loro discenti, la stessa vocazione alla “mission” più che all’esercizio laico di una professione, sia pure privilegiata e molto particolare. E poi perchè ogni cliente (utente) vorrebbe magari ciò che comporta il migliore impegno per gli altri escludendo, guarda caso, se stesso da una sinergica cooperazione. Viviamo oggi in contesti (e-contest dove tecnologia e didattica dovrebbero meglio convivere) tanto diversi da quelli delle generazioni precedenti per cui non siamo legittimati a continuare a ragionare negli stessi termini e con gli stessi fermi parametri.
L’autorevolezza da un lato e la coesistenza pacifica e democratica dall’altro sono esse stesse dimensioni in progress che si vivono e si sperimentano “nel mentre”, condotte che si praticano più che belle ma vacue parole che si possono insegnare.
Il processo educativo si avvale notoriamente delle due mani, quella familiare e quella scolastica.
Ma se quella familiare, senza voler generalizzare, è spesso monca, se manca una buona autorevolezza formativa (e sempre più spesso manca) all’interno della famiglia, in questo quadro sociologico scompensato e condizionato al negativo a causa di genitori ancor più sbagliati, per dirla con A. Bèrge, quale buon margine di operatività rimane al docente? E il docente del 2012, d’altro canto, ha quella preparazione pedagogica, oltre che disciplinare, che gli si dovrebbe richiedere? Lampante che per completezza di argomentazione non si dovrebbe trattare solo della crisi (di valori) della società e della famiglia ma anche degli insegnanti. Per l’insegnante ritorna, come la metafora del gatto che si morde la coda, il problema della sua formazione e delle sue prestazioni se siano ancora da ritenersi idonee a garantire i risultati attesi. L’idea semplice è quella di una nuova teoria della docenza. Problema antico e già affrontato da Giovanni Gentile in alcuni suoi articoli del 1907 e 1908, quasi negli stessi termini speculativi attuali, considerato che malgrado tutto il contributo di facoltà universitarie che pure si richiamano all’innovazione nella ricerca-azione metodologica e didattica all’interno dei Corsi di laurea in Scienze della formazione, in Italia non si riesce ancora ad uscire dai termini prevalenti di una “lezione frontale” e di una scuola tradizionale, fin nell’architettura scolastica costituente, già per Renato Coèn nel 1965, il primo problema pedagogico. Se la scuola trascura ogni forma di laboratorio creativo sostenibile, se si assegna solo l’obbligo della trasmissione di un dato contenuto culturale è ovvio poi concludere che la preparazione del docente coincida necessariamente con la sua preparazione sulla disciplina e con la sua abilità nel consegnarla. Ma questo non può più ritenersi sufficiente nell’attualità e in prospettiva se si considera la persona nella sua integralità, nella sua situazione, nelle sue esperienze esistenziali, nei suoi coinvolgimenti emotivi ed intellettuali. Nel suo progetto di vita. Per rispondere congruamente il docente, oltre le competenze disciplinari, dovrebbe possedere quella salda competenza psicologica e quell’intuito pedagogico e metodologico per cui non dovrebbe mai trovarsi a procedere a tentoni nell’affrontare qualsiasi situazione che gli si pari davanti.
Può capitare, invece, che un docente della scuola media di un piccolo centro in provincia di Catania sia stato accusato in queste settimane di abuso di potere per aver rivolto a un suo alunno l’epiteto di “somaro”.
“Così – commenta Tuttoscuola – una vicenda apparentemente banale, a proposito della quale i saggi giureconsulti romani avrebbero detto che “de minimis non curat praetor”, è diventata un caso giudiziario di qualche rilievo anche per chi si occupa non di diritto (addirittura penale) ma di educazione”. Tale rivista si chiede poi se non rientri, o meglio possa, con una certa nostalgia, rientrare ancora, “tra i ‘poteri’ (compiti, funzioni) dell’insegnante quello di rivolgersi agli alunni con quel tono burbero, tra brusco e paterno, ben noto alle precedenti generazioni di studenti?” Alla ricerca di una scuola migliore, a mio avviso, non si deve ritenere che qualsiasi linguaggio (in questo caso quello della frustrazione) sia permesso al docente specie in un’epoca in cui appare fin troppo evidente la caduta del prestigio sociale e dell’auctoritas del docente e la problematicità professionale. Un docente sia tale nel suo modo di essere, di apparire e di esistere. Non è insultando ma semmai ricorrendo all’applicazione neutra di una sanzione disciplinare, pure prevista dal Regolamento scolastico interno in caso di inadempienza (ma se il profitto è scadente non si può comunque qualificare l’autore come un… somaro, seppure siamo intimamente convinti che lo sia, e contestargli qualcosa oltre che assegnargli per valutazione sommativa il voto che si merita), che si può educare l’alunno al rispetto della legalità e recuperarlo all’indispensabile impegno avendo cura, sostenibilmente, di non far sfilacciare mai il dialogo con la sua famiglia. Altrimenti si dovrebbe concludere che troppi somari si trovano all’interno della scuola e, tra questi, non tutti si contano nelle fila degli studenti **. © – Sergio Andreatta, Riproduzione riservata
* Ilvo Diamanti.
** Solito, vecchio, osteggiato e, quindi, da generazioni insoluto problema della valutazione meritocratica del docente. Dove al merito riconosciuto dovrebbe corrispondere una differenziata e proporzionata retribuzione.
7.04.2012: Concorso a preside, ammesso all’orale solo 1 candidato su 13.