Oggi ricorre la Festa di San Silvestro patrono della Comunità isolana e dei ponzesi nel mondo.
A vent’anni ho vissuto di Ponza, dove tempo e spazio hanno un diverso valore. “Da rupi e da picchi / di bianca perlite e ossidiana / la piccola Ponza è chiusa /…(Sergio Andreatta, Ponza). L’isola è stata la mia vita per l’intero anno scolastico 1970-’71. Alloggiavo in Salita Chiaia di Luna, da Luisa Mazzella, nella casa che si diceva avesse ospitato Sandro Pertini al confino durante il fascismo. Insegnavo a Le Forna, nella scuolettina di Le Piana, due ambienti in tutto, non distante da una cava di perlite che da decenni andava tarlando, come un tumore incurabile in infinita metàstasi, un’insenatura di paradisiaca bellezza. Due soli insegnanti in quella scuola avvolta permanentemente nella nube di polvere bianca della miniera, con aule senz’altra luce di quella che poteva filtrare dai vetri opachi dall’unica porta-finestra. Ogni mattina la sgangherata corriera tossendo mi portava dal capoluogo. All’improvviso, durante il percorso, una curva alta sopra una cala di acque trasparenti due volte al giorno, all’andata e al ritorno, mi regalava lo stupefacente panorama verso l’Isola di Palmarola. Eravamo in due, io e Virginio Grassucci, un setino che nell’isola viveva da assoluto pascià, dopo aver trovato qui la sua sposa, e che mi spingeva a innamorarmi dell’una o dell’altra che di volta in volta mi proponeva come miglior partito. Ma di ragazze veramente belle, per il figo che allora mi sentivo, non ne vedevo in giro tantissime. Una di quelle, anzi, seppure certamente benestante, mi sembrava portasse pure i baffi! Virginio idolatrava il suo cane da caccia, un segugio nero focato che lo accompagnava sempre nelle sue scorribande per le balze ma, soprattutto, nel momento del passo. La devozione che aveva per il suo quattro-zampe era superiore a qualsiasi immaginazione, superiore mi sembrava allo stesso rispetto che il maestro aveva per i suoi alunni su cui mi chiamava a vigilare quando, col movimento dell’autorevole signorotto di campagna, lui svaniva per chissà dove. E quegli alunni si chiamavano per lo più Vitiello e Mazzella, figli di pescatori e tagliapietre. Insieme a loro, quasi sempre Silverio di nome, da me ribattezzati junior o senior o magari in altro modo per distinguere l’uno dall’altro, non potevo non cominciare a comporre, a beneficio della nostra comunicazione, un mini “dizionario fraseologico di lingua ponzese-italiana“. La sorte, quasi a dispormi al progetto, aveva voluto che, io oriundo veneto, lavorassi in Campania a Mercogliano in due anni precedenti… Percepivo in tutta la sua gravità, sotto l’inefficiente sindaco Sandolo, il disastro ecologico causato dalla Samip. Condannavo la rassegnazione, la quinta di inerzia e indifferenza diffusa tra la gente, salvo uno. Al maestro Ernesto Prudente, un’autority morale dell’Isola, lo stato dell’ ambiente importava, eccome!, più della stessa circolazione del sangue nelle vene tanto da andare a documentarlo e a protestare in “TV7”, un importante settimanale della RAI di quelle stagioni. Ma pochi altri erano così aquile osanti da alzare la voce della protesta. Senza impicciarmi troppo dei fatti di paese, fatti miei fino a un certo punto, mentre insegnavo nella V elementare continuavo a sostenere gli esami del Corso di laurea in pedagogia ad indirizzo psicologico presso l’Università La Sapienza di Roma… Al rumore dei barattoli scossi dal vento invernale e all’abbaio alla luna dei cani, vaganti liberi come i veri padroni dell’isola, andavo in giro scattando foto e scrivendo versi che avrei incluso in seguito, solo alcune poesie, nella silloge “Eucalyptus” (Lucania Editrice, 1980) con la prefazione di Stanislao Nievo. A giugno, di questi tempi, noi venuti dal continente per gli impieghi pubblici dovevamo già da alcuni giorni aver lasciato la camera della pensione e il letto per far posto ai turisti, sempre numerosi, americani di ritorno e torinesi occupati alla Fiat e ricchi milanesi… In realtà quasi tutti ponzesi-doc costretti dalla miseria a cercare fortuna altrove e che, ogni anno per San Silvestro, come i salmoni risalivano tornando, con tutta la loro appassionata nostalgia, al genius loci.
Gran Santo protettore,/Silverio venerato, il popolo/adunato, a te si inchina./Se il Cielo lì destina/ A vigilar su noi;/ Per noi molto far puoi/ In ogni evento./E’al certo un argomento/ Dell ‘alto Tuo potere/ Il bel che fai godere/ A chi lo brama/ Chi in suo favore Ti chiama,/ Ottien pronto il soccorso./Chi a Te non fa ricorso,/Incontra il male. (…).
Così ancora quasi quarant’anni fa… Nell’isola i sensi vivevano da esaltati ma la loro drogata apoteosi di colori, voci, odori e di gusto di piatti favolosi di pescato si toccava tutta soltanto per la Festa. Anche per chi non avesse qui le sue radici, la festa del patrono San Silverio, che si celebra il 20 giugno nell’ouverture dell’estate, era l’occasione per un approdo straordinario su questa oasi del Tirreno. Religiosità popolare e magia pagana antica mescolate in un solstizio d’estate in cui si leggevano le speranze e si propiziava il futuro ritrovandosi intorno ad un fresco bicchiere di bianco “fieno”, tratto da uve “biancolella” sciacciate coi piedi e poi pressate con la pietratorcia dai componenti dell’antica famiglia Migliaccio già dal 1724 in enfiteusi perpetua sulle suggestive coste di Punta Fieno, un bicchiere dal profumo salmastro e di ginestra da celebrare con le famiglie e gli amici del tempo perduto e finalmente ritrovato. Emozioni che solo chi le vive sa. Ed ecco il fascino del giorno più lungo dell’anno e della notte più corta che ancora oggi a frotte vengono pure a cercare, ma per altri scopi, tanti giovani su quest’isola-maga. E che cosa spinge anche loro, in fondo, se non la ricerca di se stessi in un senso nascosto? Eccoli, i tanti ponzesi tornati per partecipare con grande trasporto ai vari riti. Ponzesi che vivono lontano, in Argentina, in America, a New York, nel Bronx, dove c’è la sede del club della “S. Silverio Strine association”. Quanti pescatori nel rischio, quanti non pescatori di fronte a una difficoltà qualsiasi non hanno invocato istintivamente il loro santo: “San Silverio, aiutami tu!”. Una festa già partita il 9 giugno quando, durante la notte, la spiaggia di Santa Maria è stata invasa da centinaia di persone. Quando a mezzanotte da Punta della Madonna era spuntata la barca che issava lo stendardo, accompagnata da una scia di altre barche illuminate. Il vessillo in capo guidava la ondeggiante processione fino al porto borbonico. Sbarcati a riva veniva istradato su, tra un corteo di gente di tutti i tipi, verso la chiesa parrocchiale. Ripiombata nel suo torpore per alcuni giorni l’isola tornava a vibrare tutta al risveglio del 20 di giugno. Appena dopo l’alba scoppiava un terremoto di fuochi d’artificio. L’esorcismo aveva così inizio e potevano, ora, seguire le previste celebrazioni religiose. Alle 11 del 20 la piazza, gremita all’inverosimile, non conteneva più neanche un cane macilento. Il raccoglimento era intenso durante la messa solenne, poi si snodava la storica processione dove ogni capofamiglia andava ad occupare la sua gerarchia. La venerata statua del Santo veniva issata e sistemata su una piccola barca tappezzata di garofani rossi e i portatori prescelti con criteri antichi tra il popolo, da onorati sacerdoti laici ora la sollevavano in alto tra decine di mani imitanti e che si protendevano per toccarla. Una coreografia suggestiva, un quadro di venerazione dei semplici, di protezione perorata e così convintamente cercata. E il mare, generalmente benevolo ma non sempre anche a giugno, sembrava voler partecipare esso stesso coi suoi moti e le sue voci alla processione in corso, e come avrebbe potuto fare altrimenti? Centinaia di barche rasentavano ora la baia accompagnando in parallelo la lenta fiumana dei fedeli “terrestri”.
E dopo, quasi a “mettere fiori nei propri cannoni” cioè nelle sempre vigorose liti di paese, ognuno se ne tornava a casa sua, a quasi l’ora del gran pranzo che si prospettava rigorosamente a base di aragosta, astice, dentice, tonno, pesce-spada, stringendo un garofano rosso tra le mani. Magari più le donne degli uomini, più legate per un verso alla tradizione ma anche, per l’altro, più dotate di difese immunitarie contro i giovanili scherni dissacratori di un’inventata tradizione non condivisa, seppure antica, e che già allora incominciava un pò ad incrinarsi. Le tradizioni, qualcuno vuole che non aggiungano di per sé niente di più e di meglio a quanto già esiste, ma se esistono nell’antropologia di un microcosmo non è anche bello tramandarle? Giovani perduti e su altre piste da esplorare, suggestionati da ben altri narcotici richiami… Poi come in tutte le sagre, particolarmente allegre nei paesi di mare e di montagna (come a Picinisco) dell’ex Regno di Napoli, si andava e si va avanti così, fino alle due del mattino, tra amori inseguiti e chissà mai se… traguardati, crapule, giochi, balli e il tradizionale spettacolo di cantanti, ingaggiati ora anche di grido, fino al conclusivo trionfo sul mare dei fuochi d’artificio. A quest’ora buia l’amico Francesco De Luca avrà cantato alla Peppino di Capri le sue canzoni, Silverio Lamonica avrà scritto e declamato il suo sonetto in dialetto e Paolo, Paolo Iannuccelli, stravagando tra la “gente di Ponza”, come una palla sfrenata tra i birilli, avrà finalmente intercettato quell’altro “tipo” da inserire, nella prossima edizione, alla galleria delle sue macchiette. A tutti:” Buona notte!”. © – Sergio Andreatta