(ANDREATTA NEL MONDO) – EMIGRARE
Emigrare, dire addio con sentimenti dolorosi ma anche con nuove aspettative alle proprie radici, al “genius loci” natio, alla tradizione secolare che ha nutrito la propria cultura familiare, al paese, al dialetto, ai propri padri consegnati prima alle braccia accoglienti della terra-madre. Dividersi dai fratelli, dire addio con dolore, mantenendo per sempre nel cuore gli impeti della nostalgia che ritorneranno spesso a fare l’esame di coscienza, a rimproverare di essere partiti e ritornare se si può, quando si può. Lo slancio di ogni partenza, e anche di una migrazione, è la vitale ricerca di un benessere nuovo, di quello che la propria terra immiserita, non perchè matrigna o avara, ha negato quasi dispiacendosi in un particolare momento della sua storia. Oggi si parte dal Sud e dall’Est del mondo per venire da noi ma, subito dopo l’Unità d’Italia, svanite le grandi idealità risorgimentali rimaneva a molti nuovi Italiani soltanto il confronto con la dura realtà di ogni giorno, con i problemi della sopravvivenza e del futuro della prole, ma comunque in una condizione di sentita maggiore libertà personale e di gruppo dove il bisogno diventava motore di ricerca, slancio vitale che spingeva tanti fuori dalle regioni del Sud come del Nord dell’Italia, orientandoli nella seconda metà dell’Ottocento verso nuovi mondi che non facevano, però, mai sbiadire i ricordi o recidere del tutto le radici dei vecchi… Sarà così anche per il giovane Ambrogio Andreatta, mio nonno, che si mosse da Paderno d’Asolo per andare a lavorare negli Stati Uniti e poi, dopo un ritorno di 23 anni al paese pedemontano, di fronte alle devastazioni della Grande Guerra, sostenuto dai figli ripartì di nuovo da Paderno del Grappa per venire, come altri pionieri, a bonificare 75 anni fa queste plaghe dell’Agro Pontino belle addormentate in secoli di paludi… Quelle radici ora, dopo più di cent’anni, anche i pronipoti della “gens Andreatta” del Sud-America o dell’Australia, per non interrompere il flusso di una catena generazionale, tornano a recuperare per sentirsi psicologicamente più inseriti in se stessi e nella propria storia familiare e incastonati in una nazionale… © – Sergio Andreatta
Una piccola Italia tra le valli della Bosnia
A causa delle difficili condizioni di vita, verso la fine del diciannovesimo secolo, molti Trentini furono costretti ad emigrare dalle loro valli chi per andare in Brasile, chi in Argentina, o altri in paesi dell’America ma anche qualche famiglia in Bosnia. A quei tempi il nord-est dell’Italia, come anche la stessa Bosnia, si trovano sotto l’Impero austro-ungarico cosicché le due realtà appartengono ad una unica entità amministrativa statuale, se non ad un’unica nazione e la mobilità interna non trova particolari ostacoli politici, anzi viene agevolata. A seguito di una devastante alluvione della Valsugana ad opera del fiume Brenta (una “brentana“) molte famiglie trentine caddero in rovina, tra il 1881 e il 1882. Si videro distrutta la loro casa, rovinate le loro operose attività economiche. E a molti non restò altra via che quella di emigrare: dapprima in Brasile (ma il proposito fallì presto per via di un raggiro di paese e di false promesse di cui abbiamo già parlato) e quindi in Bosnia. La decisione di emigrare in Bosnia fu favorita da una serie di contingenze storiche… Con il Trattato di Berlino del 1878 l‘Impero austro-ungarico aveva assunto l’amministrazione della Bosnia, seppure rimasta in territorio ottomano tanto che soltanto nel 1908 l‘Impero austro-ungarico avrebbe annesso totalmente la regione. Così Vienna, senza temporeggiamenti e per un preciso disegno, si diede subito a promuovere e ad attuare una politica di ripopolamento della Bosnia a scapito delle autorità turche e delle locali popolazioni. In questo progetto di ripopolamento della Bosnia l’imperatore Francesco Giuseppe fece rientrare le famiglie della Valsugana, di Primiero, Aldeno e Cimone. Partirono delle famiglie (320 persone circa): una parte si stabilì in Bosnia nei distretti di Prnjavor e Banja Luka; una parte si stabilì in Erzegovina, nei distretti di Konjica e Tuzla. La presenza italiana a Konjica non durò a lungo. Nell’area di Štivor si insediarono le famiglie provenienti dalla Valsugana. La condizione per entrare era che la persona avesse concluso una qualsiasi scuola o professione e che fosse alfabetizzata. I Trentini sono accolti sulla proprietà dei Beg (titolo nobile turco), che hanno l’obbligo di accogliere ciascuno due famiglie e cedere loro un congruo pezzo di terra, lì i Trentini si mettono a coltivar le viti. Il vino era poco conosciuto in quella regione e la gente veniva da luoghi lontani per comprarlo dagli esperti coltivatori trentini. “Oggi non si potrebbe più vivere di questo, – dice un Andreatta – perché più nessuno con la globalizzazione dà importanza ai prodotti locali”. Stivor rientra nella municipalità di Sibovska (Republika Srpska, Bosnia – Herzegovina, vedi mappa). Conta più di 150 case, belle, ordinate, con giardino ma in buona parte ormai vuote perché la gente torna sempre più spesso in Italia a lavorare. Al “Circolo Trentino” arriva regolarmente la rivista “Trentini nel mondo” che riporta tutte le informazioni sugli avvenimenti più importanti della Provincia Autonoma. Ma in realtà, oggi come oggi, le vie di comunicazione sono altre e più istantanee come i canali digitali della televisione ed internet… Nessuno sa esattamente perchè il paese si stato chiamato originariamente così ma, quelli che sembrano più informati, azzardano la loro ipotesi richiamando un’etimologia derivante dalle prugne (sljive) da sempre coltivate nella zona. L’attività principale è, quindi, l’agricoltura, anche se nessuno più vive solo di questo specie coloro che, in un recupero di regressiva italianità, sono tornati vantaggiosamente a lavorare oltre confine. Anzi leggo su un’intervista che gli abitanti ci tengono a far sapere che si occupano di agricoltura solo più… per impegnare il loro tempo libero. Oggi come oggi, tramontata definitivamente la cortina di ferro, tutti hanno riacquisito la cittadinanza italiana e mantengono legami solidi col Trentino da cui i loro avi erano partiti (soprattutto da Pergine, Levico,…) per trasferirsi qui dopo il 1875. A Stivor possiedono tutti il passaporto italiano, nelle scuole si studia italiano, si leggono i giornali italiani e si vive con pensioni italiane. E si dichiarano, proprio tutti, particolarmente orgogliosi della loro cittadinanza italiana, riottenuta qualche anno fa in seguito al varo di una legge che ha previsto il suo conseguimento per le sole origini, ed esattamente, in base ai registri anagrafici che si custodiscono nelle chiese. Accanto alla principale del paese c’è un piccolo cimitero. Sulle lapidi sono incisi tutti cognomi italiani tra cui, in questa sorta di Spoon River slava, molti Andreatta, Andretti e Moretti. Di: © – Sergio Andreatta, Latina, Italia.
Per ulteriori approfondimenti su questo movimento migratorio trentino si rimanda a:
(Bibliografia di riferimento): Guido Lorenzi, Stivor, ritorno a casa, Museo Usi Gente Trentina Editore,TN,1980).