21st Lug, 2008

Sergio Andreatta, Il mulino sul Melfa

Il mulino sul Melfa

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di Sergio Andreatta

(Riproposizione dell’articolo pubblicato su www.telefree.it il 31 agosto 2005)  

Picinisco (Mole Di Vito): “Ogni mugnaio tira l’acqua al suo mulino” esordisce così la mia guida che mi fa tornare indietro, per la prima volta dalla metafora della lingua all’azione che l’ha causata, e gustare a pieno il senso e il significato di questo proverbio. Pippo Volante non è il protagonista di un cartoon o di un fumetto, è un simpatico vigile urbano di Picinisco.

 

Già biondo, pelle rosea da mugnaio, espressione aperta, un tipo che, per i tratti appropriati e gli esiti garantiti, potrebbe ben impersonare uno dei protagonisti de “Il mulino del Po” di Riccardo Bacchelli, il grande affresco che narra le vicende di una famiglia di mugnai della Bassa emiliana fornendo uno scorcio della storia italiana nell’arco di un secolo tra il 1812 e il 1918, come appunto i Di Vito lo forniscono significativamente per la Val di Comino dello stesso periodo ma fino ai nostri giorni.

E di mulini il vigile Volante se ne intende, davvero, essendo anche sua madre, la signora Irene Di Vito, comproprietaria dell’antico mulino ad acqua del 1600 (foto1) ancora attivo su un braccetto del fiume

 

 

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 Melfa, il corso d’acqua che provenendo dalla Valle di Canneto, scende a Picinisco e taglia la più bassa Val di Comino fino a confluire nel Liri. E illustrandomi questa deviazione artificiale, poco distante dal letto naturale del fiume, il mio cortese interlocutore se la ride nel ripropormi ripetutamente il detto “tirare l’acqua al proprio mulino” cui deve attribuire un intenso significato, anche emotivo, in riferimento all’attività svolta dalla sua atavica famiglia. Se, poi anticamente, in quel tratto di fiume i mulini erano ben undici si capisce ancora meglio come tra i vari proprietari potesse giocarsi una bella partita di diffidenze e furberie per la contesa dell’”oro bianco” e per tirare… l’acqua al proprio mulino perché dalla sua sola disponibilità, specie d’estate, dipendeva il lavoro, la fortuna familiare e la maggiore considerazione sociale. E capisco, anche, come il primo impianto sul fiume, quello dei Bartolomucci al Castellone, dovesse godere di privilegi e vantaggi non da tutti. Ma quella era famiglia a sé, di avveduti notai arrivati un po’ alla volta, con un atto “pro domo sua” dopo l’altro, ad acquisire la proprietà dell’intera Valle Romana e, perfino, del castello medievale di Picinisco. Ora, una ventina d’anni fa, questa mulino è stato disperso e trasformato in un lussuoso residence per abbienti famiglie partenopee in cui spesso ha trovato rifugio anche il calciatore Maradona in forza al Napoli migliore di tutte le epoche e, così, quello dei Di Vito dei tanti è finito coll’essere l’unico mulino superstite. Mulino con un’antica storia! Nel 1880 l’allora sindaco di Picinisco Giuseppe Ferri, probabilmente alla ricerca di un evidente equilibrio tra tanti interessi e con fini di regolamentazione, per mano del segretario comunale Lorenzo Boni intimava per iscritto alla famiglia Di Vito, installata sul secondo mulino, di darsi una regolata nell’uso dell’acqua, proibendo che ne potesse deviare troppa dal fiume e disponendo che ne usufruisse di un tot e non di più per le sue attività lavorative. A Mole di Vito, nei dintorni della frazione Antica di Picinisco, il mulino della famiglia Di Vito (di Vito) da cui prende pure nome l’omonima località, si presenta come una robusta struttura rettangolare in pietra (foto 2) con tetto a due falde di tegole, più anticamente di coppi mi si dice, dove dentro un grande unico stanzone trovano posto allineate tre antiche mole di pietra (una per il frumento, una per il mais ed una… per le ghiande in tempi di magra) ed un “valcatoio” che pressava tessuti per pastori e contadini al fine di renderli molto compatti e impermeabili, una sorta di panno loden locale. Da un imbuto in legno le granaglie vengono riversate sulle macine in pietra disposte orizzontalmente il cui movimento rotatorio, azionato da un albero in acciaio messo in moto dalla ruota spinta dall’acqua addotta da una corta condotta forzata, determina la frantumazione dei semi e l’ottenimento delle farine.

L’antico molino di cereali, per secoli proprietà strategica dei duchi di Alvito, prendeva energia dall’acqua del fiume e andava a costituire con gli altri dieci di quel fondovalle un distretto molitorio a beneficio non solo dei sudditi e dei paesi viciniori dello stesso ducato ma di altri utenti esterni al suo confine. Nell’Italia di quei secoli, come anche nello Stato/Contea di Alvito, i mulini ad acqua non venivano più usati, intanto, solo per macinare il grano e per spremere le olive ma applicati ad altre attività produttive come la produzione di tessuti, di carta e ferro. E fu grazie all’uso dei mulini ad acqua nella produzione dei tessuti che la manifattura tessile conobbe uno straordinario sviluppo non solo in Inghilterra ma anche nella vicina Isola del Liri, ad esempio. Alla fine del settecento, nel Regno delle Due Sicilie in cui il comune di Picinisco rientrava, funzionavano più di cinquemila mulini ma non molti erano quelli, come quello ad acqua dei Di Vito nella Val di Comino di cui sto parlando, che avevano più di una ruota ed erano anche dotati di un valcatoio per i tessuti.

 

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Un atto notarile “solennizzato” il 1.06.1813 dal notaio Bonaventura Coppitti del fu Giuseppe di Alvito, sempre nel Regno delle due Sicilie, anche autorizzato con “patente comunale articolo quindici” registrava, infine la comproprietà di Fortunato di Vito domiciliato in Rosanisco, Casale di Atina. Ma risulta che suo padre, Domenincatonio di Vito che aveva già provveduto al funzionamento di questo molino a forza idraulica verticale, ne fosse divenuto nel frattempo proprietario. Quante storie, quanti intrecci umani e sociali! E quanti controlli fiscali disposti dalle autorità come quando, ma più recentemente durante il regime fascista, la finanza fece applicare un ingegnoso contagiri sulle mole sì che non si potesse evadere neanche di un centesimo alla famigerata “tassa sulla macinazione”!… Ormai, nel 2005, questa significativa e singolare testimonianza della civiltà del lavoro attraverso i secoli, tanto importante per la storia e la storiografia del lavoro e dell’industria cominense, viene messa in funzione solo saltuariamente per muovere il meccanismo o per scopi dimostrativi o per motivi didattici per qualche scolaresca o per gentile disponibilità come nel caso della mia visita. L’antica industria, prima di cadere definitivamente in malora, avrebbe bisogno di un’urgente manutenzione “a ripristino funzionale conservativo” ma uno dei quattro eredi non sembra avere le idee chiare sulla definitiva destinazione del bene, ora simbolico più che economico, e sull’adesione o meno ad un progetto culturale, idea-tipo vincente, anche sostenibile dalla Regione Lazio e dalla Comunità Europea. Nella luminosa cucina dell’ospitale signora Irene, dotata di un bel camino, di un lavello e di due pregevoli e gentili colonne di pietra sulla scala opera, negli anni ’50, dei famosi scalpellini di S.Donato, suo figlio Pippo Volante mi esibisce le antiche carte (foto 3), atti notarili, signorili e comunali, documenti avvalorati dal tempo e macchiati dal sudore di tanti sacrifici, che testimoniano la storia, questa volta scritta, di un’opera di ingegneria idraulica non solo rappresentativa della proprietà familiare ma connessa più ampiamente alla vita comunitaria e alla civiltà di questa operosa valle appartenuta amministrativamente alla provincia dell’Alta Terra di Lavoro fino al 1927. E quale potrà essere, mi chiedo, l’avveduta autorità che nell’interesse del valore del lavoro possa impegnarsi a trovare, mediando tra tanti discorsi, la chiave di volta per aprire al recupero e all’uso culturale pubblico di questa antica manifattura? Il posto delle Mole di Vito è, nella sua campagna circostante, panoramicamente rustico e molto affascinante. In alto, ad est, il “piccolo paese” di Picinisco, avamposto alle Mainarde, si erge su un roccioso bastione di difesa. Il tramonto proietta un incendio sul grumo di case, un bagliore rosso arancione che non posso soltanto ammirare e decido di archiviarlo in un ricordo fotografico digitale. Il Melfa, anima e motore di questa fabbrica veteroindustriale, ma anche della vita e

 

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della religione sannitica più antica della valle (IV sec. a.C.), mi saluta con le chiacchiere gentili del suo scorrere su pietre tonde e levigate; mi saluta questo antico mulino, basso, anche un po’ addentrato nel terreno per non perdere neanche una goccia di quel prezioso carburante che era l’acqua del rio …

Mi resterà a lungo l’emozione che mi hanno consegnano le antiche mole ad acqua dei Di Vito, non soltanto per l’interessante manufatto, per il reperto da museo, ma anche per quella multisecolare civiltà, più che archeologia, del lavoro. E ancora per la tecnica avanzata, l’economia e la ininterrotta continuità tra i secoli come testimone diacronico e “filo rosso” tra tante successive generazioni di una stessa saga familiare… Persone operose al lavoro, movimento di granaglie, di sacchi di farina, voci e schiamazzi dialettali, richieste, pagamenti, contrattazioni e liti… Sulla polverosa strada antistante c’è animazione, partono ancora carri trainati da cavalli dopo che i facchini del mulino hanno provveduto a caricare i sacchi di farina, altri ne arrivano tirati da mucche bianche aggiogate che scaricano granoturco…Un trattore e poi un camioncino…: galoppa nel diacronico blow-up a ritroso la mia immaginazione!

Non solo fantasia, è tutto ancora vivo dentro questo antico mulino! E penso ad alcuni dei Di Vito più sensibili che vorrebbero affidare alla memoria storica del loro paese e della Valle questo importante frammento di storia della comunità. Ci riusciranno?

Sergio Andreatta, © testo e foto, About Picinisco, (XII), agosto 2005

 

TF Press

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