21st Ott, 2012

Sergio Andreatta, presentazione del libro di Pietro Maroncelli, La serenità in 77 pillole 77… e altro ancora

Pietro Maroncelli

La serenità in 77 pillole 77… e altro ancora

Aletti Editore, Villalba di Guidonia, 2012.

Per la Collana “Gli Emersi – Poesia” di Aletti Editore di Altre Sembianze S.r.L.

UPTEL_Presentazione

 __www.andreatta.it__p=8399

Recensione di

Sergio Andreatta

 

A Latina nell’Aula Pacis di Via Sezze 25, sotto l’egida dell’Università UPTEL, il 15.11.2012 alle ore 18. 

La metafora del viaggio lega fin dall’antichità, talvolta in modo abusato, l’avventura umana, la  realtà e il sogno, la crisi e l’utopia così che ancora oggi ogni progetto, ogni impresa e quindi anche la poesia non è meglio rappresentabile che dal viaggio infinito di Ulisse, di Dante o di Claudio Magris. I due bambini, malgrado la loro tenera età, non temevano la selva oscura che incombeva minacciosa su di loro, sapevano di non perdersi nel riattraversarla, perché Hänsel e Gretel (in tedesco: Hänsel und Gretel dei fratelli Grimm) potevano affidare i loro passi verso casa alle briciole di pane che avevano disseminato, come Piero Maroncelli i suoi passi, in ricerca di serale serenità, alle sue briciole di poesia. Dalla quarta di copertina: “E chi non vorrebbe vivere sereno…? Si chiede il poeta veliterno al contrario di Vasco Rossi amante di: “Una vita spericolata”, (1999). Vivere sereno… Ma Pietro non ci riusciva. La sua serenità, la felicità del vivere, passata che fu l’età del bambino, gli sfuggiva come acqua che non poteva trattenere fra le dita. Sfuggiva. Incurante della tanta ed innata voglia di lei. Così si ritrovò ad essere un emigrante, nomade nella vita. Con tutto il senso del vuoto che la sofferenza di non appartenere al mondo lascia dietro di sé. Come una scia. Come la mancanza di amore. Pietro ha scavato nelle miniere scure del dolore finché tra tanto carbone è apparsa una gemma meravigliosa. Era la sua Forza personale, nell’anima, bella lì ad aspettarlo da chissà quanto. Forse da prima del mondo… Era la Serenità. Non si sono più lasciati.

Pietro Maroncelli, nomen omen, suggestivo resuscitatore nel nome del carbonaro, patriota, con-sorte di Silvio Pellico allo Spielberg, è nato a Velletri nel’46, centocinquant’anni dopo il controverso forlivese, quegli di professione musicista ma anche poeta, questi che preferisce farsi chiamare Piero, una vita di impegni nell’esercito, nel lavoro, da volontario nella Croce Rossa. Un animo inquieto, sempre sulla strada, quasi alla Keruoac.“Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati” “Dove andiamo?” “Non lo so ma dobbiamo andare”, (On the Road, 1957, pag. 17), ma al contrario di Jack Kerouac Maroncelli che già aveva scritto “Poesie di strada per la gioventù”( “Una strada m’ha portato / a incontrare il primo amore. /…”. Pag. 13, 2010.), ora va a questuare serenità. E in questa sua ricerca-azione gli pare di trovarla infine in una sua personale “poesia della serenità”. Ma la serenità, nel pensiero del critico, quasi mai coincide con l’arte, con la poesia, il più delle volte anzi è il suo esatto contrario. Un cultore della dimensione creativa s’imbatte il più delle volte nel tormento, più che nell’estasi. Ne sanno qualcosa Dante, Michelangelo, Leonardo, Caravaggio, Leopardi... E non scrive  Theodor Adorno in “Minima moralia” che “Il compito attuale dell’arte è di introdurre caos nell’ordine” Ma la serenità che si cerca e ci suggestiona al crepuscolo della nostra vita, piena di tracce esistenziali e comunque dei suoi travagli e delle sue cicatrici, è uno stato emotivo, un anelito all’assestamento personale che può proporre una filosofia o alla salvezza proposta da una religione. Il libro di Maroncelli diventa allora quasi un ricettario dove le 77 poesie diventano 77 pillole,  quasi prescrizioni medicinali per l’anima. Scrive in Prefazione:”La Serenità è nell’accettare le cose che non si possono cambiare. Perché appartengono alla vita. Il Coraggio consiste invece nel cambiare le cose storte del proprio essere di ogni giorno. E sono in genere tante. La Saggezza si ottiene se si capisce la differenza tra queste due. Perché la Serenità è il coraggio della saggezza. E dell’amore universale. Cioè Umiltà piena di signorile decoro. Felicità, insomma… Poi ho scritto queste poesie per parlare anch’io…”. Dove Serenità, Coraggio, Saggezza, Felicità, Umiltà, contrassegnati dall’autore con la maiuscola, diventano personificazioni, quasi personaggi in cerca d’autore. Ma è la Serenità, prima donna, “che m’ama e ride, e gioca a nascondino, / tra i seni suoi c’è il meglio del destino, / per cielo e terra e dì, l’ho da trovar!” scrive nel Prologo, a pag. 10, con cura anche della metrica (endecasillabi). La struttura di ogni poesia delle 77, con versi a volte in ottonari, settenari e altri liberi, si chiude sempre con un verso-“the end”, un amen, un intento morale, una rasoiata, un invito o chissà che… Più notte che giorno giacché “… la serenità, / essa viene dal grande tormento”(pag. 43), notte dove brillano come stelline del firmamento alcuni versi. A volte è attesa:“Quasi l’alba, tra poco. /… Già la notte si spegne nel chiaro…” (pag.14). Nel chiaro rassegnazione più che speranza: “… nel chiaro / che vuole il destino.” E ancora “ Se ora il giorno venisse da amico, / potrebbe bastarmi. (pag.17)”. “Stasera muoio. E nascerò contento…! (pag.20)”. E tra poco o tanto: “Quasi quasi non voglio dormire, / per non perderne un solo momento. / E parlare, ed amare, e sentire…/ tutta dentro, la vita che va.” (pag.28). E ancora in “Inestinguibilmente” a pag. 30: “La mente s’incammina pei sentieri / che scrivono,…”. Mentre “Piovono i giorni…,/ come gocce di fuoco, /… Su di noi,…,/ senza riparo…/” (pag.31). Dei ricordi nessuno ne fa a meno, revivals imprescindibili per ognuno: “I ricordi son alberi fermi, / tutti in fila alla via della vita”(pag.40), seppure in “Quel vagare, cometa fra stelle,… (pag.55): “Vita, vorrei fuggir, ma dove andare?” (pag.15). “La mente a volte va dove le pare… / come un vento / boiaccia sulla sabbia, / a cancellar le lettere del core. /” (pag. 59). Quasi una risposta alla precedente domanda dove “boiaccia” è un termine assolutamente nuovo e promettente per la poesia ma “core” è un termine antiquato,  frusto e che non mi piace. La domanda, in realtà tante e varie per il loro contenuto, è sempre presente nella stilistica di ogni poesia come già nella canzone di Jose Feliciano (1971):“Che sarà, che sarà, che sarà, che sarà della mia vita chi lo sa?… forse tutto o forse niente, chi lo sa…”. Così: “Il passato è un ricordo,…/ Del futuro, chissà… / forse cambierà strada. / Mi vorrà? M’odierà? Sarò ancora?” (pag. 84). Ma tra tanti dubbi sulla vita compare all’improvviso una vena di ottimismo: “Mi stiracchio. // Par quasi ch’io cerchi di uscire / da un guscio ormai stretto. / E stracciar la mia pelle…… / e capire / …” (pag.91). Un brivido sopra la fuga, sopra il “Core,… / come una mela vecchia e spazientita, /…” (pag.94), un sussulto di dignità per dire: “Sono un signore, non un vagabondo.” (pag.96) per concludere subito dopo: “Dio, m’hai fatto grande!”. Se poi vuole anche indicare la strada agli altri, prospettare ad un adolescente cosa sia la vita e come affrontarla dirà: “Ci serve avere fede. / L’anima per le forze, / la sessualità fiore dei nervi, carattere, e sapere…!” (pag. 117). E’ poesia o qualcosa altro?… Difficile rispondere ma ognuno, tra coloro che hanno letto il libro, può provarci. “… Controllata, limitata, lavorata” direbbe Igor Stravinskij, ma per questo “più libera” (in “Poetica musicale”). E del resto non è né nuovo né retorico il dubbio sempre attuale se la poesia sia morta o comunque quella vera in minoranza rispetto all’abbondante produzione edita o ancora più vasta gelosamente custodita nel cassetto. Gorgio Gaber cantava la morte di Dio (Dio è morto), altri hanno segnalato la morte della poesia. Un piccolo saggio appena pubblicato in questi giorni (Francesco Muzzioli, Come smettere di scrivere poesia, Lithos, 2012) invita polemicamente a “smettere di scrivere liriche”, a liberarsi dalla dipendenza, a disintossicarsi definendo insopportabile e retrograda l’idea della poesia come “emozione pura o linguaggio dell’anima”, ma già Sanguinetti detestava il poetese e il narratore polacco  Witold Gombrowicz accusava molti suoi conoscenti di smodato uso di “zucchero” lirico e reagendo di fronte alla loro ampollosità o alla convenzionalità di tante raccolte di versi arrivava perfino a scrivere “I poeti nascono ovunque, come i vermi”. Troppo lunga sarebbe la lista di coloro, classici da Orazio a Leopardi, da Baudelaire a Brecht che maledicono il flagello di chi compone versi. Ma l’intubum silvestre cresce in ogni campo, nutrendo chi lo cerca, riempendogli di bellezza gli occhi con la vivacità dei suoi fiori celesti riuniti in capolini. Non c’è chi, anche vermi stazionanti sulla tenera rosetta delle foglie basali, non abbia mangiato almeno una volta la cicoria, magari per dire “Quanto è amara!”. La poesia è un intubum a disposizione di tutti, anche di chi ha scarso appetito e nessun soldo per comprarla, basta solo cercarla tra le erbe infestanti e coglierla. E del resto, per Benedetto Croce, Breviario di estetica, la poesia come l’arte, e come la cicoria aggiungo io, “è ciò che tutti sanno che cosa sia”… Eppure quando non s’incammini per strade nuove, o se non rappresenti cose nuove non le rappresenti almeno “con novità”, come scriveva Ugo Foscolo nel suo Epistolario, o almeno non diventi ricerca ma si prospetti piuttosto come replica di metafore obsolete, di reminiscenze già udite, di percezioni e sentimenti personali la pagina non può interessare tanto l’antologia e la critica letteraria ma al massimo lo studio dell’antropologia culturale come documentazione, in un linguaggio particolare, su esperienze esistenziali. Questo per un discorso generale sullo stato della poesia come arte letteraria e sulle sue molte interpretazioni che se ne fanno. Bisogna entrare nel gioco degli specchi contrapposti, nel mitico mondo dei riflessi tra infinito e indefinito, nel gioco eterno di superare i limiti scavalcando i confini con l’avventura e la ricerca di Ulisse per entrare nelle dimensioni della poesia.  Ora, per ritornare a Maroncelli, il “tempo corre, corre” e allora: “Sbrigati, penna mia, / dispiega il tratto! /… / Cancella i sogni / in cui divento un dio… / Per ch’io sia Piero, / e in credo abbia l’amore. / Serenità, m’è fuoco. / e m’è fortuna. /…” (pag. 105). Anima errante il poeta, secondo Charles Baudelaire (Lo spleen di Parigi) ha “il privilegio di essere se stesso e – dal momento che pubblica – altrui, a suo piacimento”. Ogni anima ha la sua prigione, ma le porte di quella di Piero portano inciso sopra “Serenità” e, scusate, se è poco. E “Alla serenità nulla contribuisce meno della ricchezza e nulla più della salute” come scriveva Arthur Schopenhauer (Parerga e paralipomena, 1851). Serenità e salute, quindi, questo il legame forte che si evidenzia fin dal titolo nel libro di Pietro MaroncelliLa serenità in 77 pillole 77… e altro ancora” . Ma, occorre dirlo, la via della serenità  diventa per l’autore anche la sua via interiore verso la libertà,  il sollievo che lo induce, dopo un incontro con il pensiero buddista, ad una filosofia, nec spe nec metu, per cui non si spera molto e a non si teme affatto. © – Sergio Andreatta (Latina, ottobre 2012) – www.andreatta.it, Riproduzione riservata

(634 di www.andreatta.it )

Sergio Andreatta presenta il libro di Pietro Maroncelli

I Commenti sono chiusi.

Categorie